Apprendere ad apprendere

Apprendere ad apprendere *

 di Rosalba Conserva

 L’espressione “apprendere ad apprendere” viene generalmente usata per indicare l’acquisizione di un metodo, e viene usata anche in riferimento a quel genere di apprendimento che, pur concretizzandosi in un ‘oggetto’ facilmente descrivibile nei suoi contorni, apre allo stesso tempo a un secondo apprendimento – nuovo o di livello differente. In altre parole, l’apprendere ad apprendere va oltre l’oggetto che ha generato una specifica abilità (cognitiva, strumentale ecc.) e oltre la circostanza della sua acquisizione. Detto questo, il discorso si potrebbe dire chiuso. Ciò su cui occorre fare ulteriore chiarezza è come si raggiunge tale diverso apprendimento, quali i fattori che lo determinano, quali i meccanismi che mette in atto, e qual è, inoltre, un apprendere ‘semplice’, differente dall’altro perché non altera la sostanza di altri apprendimenti, e non influisce (o sembra non influire) sulla rete delle conoscenze che strutturano il modo di pensare di una persona. Ci chiederemo anche se esiste davvero un apprendimento che possa definirsi in sé isolato e concluso.

Per poter ragionare su tutto ciò, occorre porsi auna certa distanza e risalire a un modello teorico. Infatti, se ci limitassimo a descrivere i casi concreti e non li valutassimo alla luce di una teoria, saremmo facilmente portati a generalizzazioni affrettate, a ‘concretezze malposte’. Serve quindi una teoria: nel nostro caso, una teoria generale dell’apprendimento, la quale dia conto anche dell’imparare a scuola. È infatti l’apprendimento in ambito scolastico quello che qui ci interessa maggiormente.

Seguendo il modello formalizzato da Gregory Bateson 1 – il quale, conviene chiarirlo sin dall’inizio, non parla mai, nei suoi esempi, di apprendimento scolastico -, chiameremo apprendimento vero e proprio quello che produce un cambiamento (a livello sia somatico sia cognitivo). Chiameremo invece apprendimento zero(d’ora in avanti: A.zero) quello che non mo­difica colui che apprende: di fronte a uno stimolo sensoriale, il soggetto fornisce una conseguente prestazione (lo stimolo è ‘saldato’ alla risposta: per esempio, suona la sirena della fabbrica e gli operai smettono di lavorare; due bambine agitano la corda e una terza bambina salta), oppure il soggetto dà risposte stereotipate, il più delle volte senza esserne consapevole (vedi i rituali di cortesia: ‘come stai?’ – ‘bene’, prima dell’inizio di una conversazione telefonica).

In ambito scolastico, diremo che A.zero è l’acquisizione di nozioni elementari ed esplicite, compresi gli automatismi. Come vedremo tra poco, anche gli apprendimenti di ordine superiore (A.1, A.2, A.3) comportano nozioni esplicite e automatismi; continueremo però a chiamare A.zero quelle nozioni e quegli automatismi che non alterno sostanzialmente altre variabili (soprattutto quelle relative al carattere di una persona, al suo stile di apprendimento), che sono (o che vengono vissute come) non suscettibili di correzioni e che hanno identico significato in una pluralità di situazioni; per esempio, apprendere a dividere in sillabe le parole, a usare le maiuscole per i nomi di città, le parentesi per delimitare un binomio, ecc. e anche nozioni meno ‘elementari’ di queste (formule matematiche, date, luoghi, protagonisti di un evento storico, ecc.), nozioni, come le altre, non soggette a revisioni continue, che hanno insomma carattere di stabilità (o che vengano vissute come tali da chi impara).

L’A.1 – il quale comporta, come il 2 e il 3, un cambiamento – va legato strettamente al contesto, varia a seconda del contesto, assume significato entro un contesto. Gran parte dell’apprendimento scolastico è di questo tipo: basti pensare al contesto – il più delle volte rituale – della interrogazione, la quale verte quasi sempre su un argomento già noto a chi pone le domande, e alle quali l’allievo risponde come se dovesse spiegare all’altro cose a quello ignote. Per fare un altro esempio di chiara percezione della crucialità del contesto, pensiamo a una rappresentazione teatrale: entra in scena un personaggio che punta la pistola su un altro attore: è altamente probabile che nessuno tra gli spettatori andrà a chiamare la polizia.

Perché un apprendimento venga non soltanto acquisito ma si configuri anche come cambiamento, il contesto deve essersi ripetuto una o più volte, anche attraverso variazioni non sostanziali e con il ricorso a più strategie (come avviene, ad esempio, nell’insegnamento dell’addizione: blocchi logici, materiale concreto, scrivendo i numeri in colonna, e così via), e deve essere mantenuto costante entro un tempo necessario (nessun bambino imparerà ad addizionare numeri dopo una semplice, unica, spiegazione). Chi è inserito nel contesto esplicativo e di esercizio – il quale si ripete identico o attraverso variazioni solamente formali – verrà messo in grado di riconoscerne le caratteristiche; ancor più le riconoscerà se potrà avvalersi di confronti con altri contesti, dei quali impari a percepire la differenza. A questo livello, dunque, si impara a confrontare una certa informazione con informazioni analoghe, nel tempo: il tempo è infatti una variabile fondamentale dell’A.1.

Chi impara a scuola si accosta a concetti e nozioni di svariati campi di studio; la nozione relativa a una certa disciplina, da semplice informazione, si combina con altre, e introduce un cambiamento nel soggetto che apprende, lo rende partecipe della natura ‘aperta’ (a possibili variazioni) dell’apprendimento. È molto probabile che un allievo non sia consapevole (e non lo sia nemmeno l’insegnante) di come cambia nel profondo il suo modo di apprendere (A.2), ma quel certo allievo è in grado di percepire il lato applicativo di una nozione, e quindi di trasferirla da un campo a un altro. Egli potrà pertanto modificare la forma e il significato di ciò che ha appreso, potrà cioè non considerare come identico uno stesso stimolo, in quanto lo collocherà nel tempo e lo combinerà con le variabili che agiscono nel contesto percepito come nuovo: l’operaio deciderà, un certo giorno, che non il suono della sirena ma l’assemblea sindacale dovrà scandire il tempo della sua giornata lavorativa; una bambina che sta saltando con la sua corda ne avvolgerà una parte al polso quando vedrà avvicinarsi un’altra bambina; uno scolaro scriverà Paese (con la maiuscola) quando vorrà intendere ‘nazione’, ‘stato’; il secondo principio della termodinamica – imparato in fisica – assumerà un altro significato alla luce delle teorie biologiche ed evoluzioniste.

Abbiamo notato che a questo livello, anche quando il contesto è ripetuto, la risposta non è mai esattamente la stessa, in quanto chi apprende ricontestualizza domande e risposte; per fare un altro esempio, uno studente che ha imparato a dare il nome di ‘stato’ a certe istituzioni e di ‘città’ a certi agglomerati urbani (A.zero), non dirà né ‘città’ né ‘città-stato’ ma ‘polis’ parlando di Atene, quando ne avrà studiato le caratteristiche, che sono tali da rendere preferibile non sostituire il nome originario con un altro nome. L’acquisizione di queste e altre nozioni di ordine superiore, e la loro codificazione in una forma (un nome, una definizione, un comportamento) possono trasformarsi anche in automatismi; perché diventi automatico, l’A.1 – come l’A.zero – avrà dovuto avvalersi di un certo numero di informazioni e dell’esercizio, e non soltanto di ciò ma anche (come abbiamo già detto) di una o più occasioni per il confronto con altri contesti. L’altra discriminante rispetto all’A.zero, è che l’apprendimento automatico di tipo 1 si accompagna a una certa consapevolezza dell’importanza delle piccole differenze che collaborano a creare le grandi differenze. Potremmo aggiungere che l’A.1 consiste nella percezione e nella codificazione dei dettagli. Da qui, la centra­lità delle ‘nozioni’ e la loro esatta (culturalmente e quindi convenzionalmente esatta) contestualizzazione. Gli automatismi, altrimenti, potrebbero risultare dannosi: nella scuola si corre infatti il rischio di una loro acritica – e inappropriata – utilizzazione. Un semplice esempio: l’aver imparato nella scuola elementare la tecnica dell’andare a capo dopo aver chiuso una frase può costituire in seguito una resistenza a ragionare in termini di paragrafazione (accorpare più frasi) per testi lunghi e complessi.

Ricordiamo che per acquisire e rendere stabile un automatismo occorre del tempo, e altrettanto, se non di più, ne occorre per sradicarlo qualora riusultasse errato o non conveniente. Il mantenimento della flessibilità garantisce infatti l’acquisizione del nuovo (nuove nozioni, nuove abitudini di pensiero): così come avviene a livello somatico (lo scalatore accelera il battito, ma sceso in pianura torna a respirare come prima: gli adattamenti contingenti sono suscettibili di riconversione), anche a livello cognitivo è sempre possibile per gli esseri umani riadattare, riconvertire gli apprendimenti a situazioni nuove.

Restando sempre in ambito scolastico, chiameremo A.1anche i procedimenti per tentativi ed errori – la capacità di correggere un errore e di correggere il procedimento della correzione -, considerato che l’A.1 riguarda informazioni suscettibili di variazioni, vale a dire che l’A.1 comprende il vasto campo delle discipline di studio, le quali sono costruzioni storiche, specifiche di una cultura, soggette a verifica e revisione ai vari livelli gerarchici nei quali una certa cultura è strutturata (la ricerca scientifica, la sperimentazione guidata in laboratorio, la spie­gazione ‘nuova’ dell’insegnante, il ‘progetto’ messo a punto da uno studente, ecc.). È qui che si forma, via via, quello che a scuola viene chiamato ‘atteggiamento critico’, al cui esercizio è indispensabile un alto grado di flessibilità.

Un’ultima annotazione circa il contesto e la sua importanza quando si parla di A.1: pensiamo al diverso significato che assumono le parole quando si passa da un campo di studio a un altro; per esempio, dal linguaggio comune al linguaggio scientifico (le parole ‘forza’, ‘energia’, in fisica e nelle scienze del comportamento (pedagogia, psicologia, sociologia, ecc.) – o nel parlare quotidiano – hanno diversi significati, richiamano differenti ‘enciclopedie’); pensiamo alla sottile (ma sostanziale) differenza del linguaggio (e dall’agire) in campo politico e nel mondo sindacale: per esempio, la diversità tra ‘lotta politica’ e ‘lotta sindacale’ si può cogliere soltanto se si hanno nozioni chiare circa i fondamenti delle due istituzioni. Insomma, solo se radicate in un contesto del quale vengono percepiti chiaramente i contorni, e solo attraverso confronti, emerge la peculiarità dei significati, e l’apprendimento si concretizza nei dettagli. Quanto ciò sia cruciale nell’apprendimento scolastico è facile intuirlo: anche l’unitarietà della conoscenza passa attraverso l’acquisizione delle specificità delle discipline e delle loro differenze – di contenuto e di metodo -: la ricomposizione dei ‘saperi’ è, in fondo, una educazione al cogliere e pensare le differenze: il botanico sa bene che la siepe di cui parla Leopardi non è la stessa siepe che egli va descrivendo in classi e sottoclassi di piante, e proprio perché è un bravo botanico apprezza il valore metaforico (e metafisico) della siepe dell'”Infinito”.

Riassumendo: l’A.1, a differenza dell’A.zero, produce un cambiamento in virtù, come abbiamo appena detto, del tempo, del ripetersi dei contesti e del confronto fra contesti. Anche a questo livello, come avviene nell’A.zero, si generano automatismi. Ciò che cambia è la disposizione a ‘ragionarci sopra’, ad avere consapevolezza che si tratta di abitudini automatiche acquisite (quelle piuttosto che altre) in un insieme di alternative: questa consapevolezza stimola, all’occorrenza, la ricerca di altre alternative. Per esempio, nel pianificare un saggio letterario uno studente può abbandonare un consueto, stereotipato modo di procedere: iniziare con una frase che ripropone la traccia del tema (tema: “Parla del pessimismo leopardiano”. Svolgimento: “Il pessimismo leopardiano è…”), e cercare un diverso incipit. Grado della innovazione e sua qualità dipendono da ‘quante cose uno già sa’. (L’esperienza, qui, ha ovviamente una grande importanza.)

Differentemente dall’A.zero, dove la causa (lo stimolo) è diret­tamente, linearmente legata all’effetto (la risposta), nell’A.1 un effetto può diventare causa di qualcos’altro: il processo non è lineare ma ricorsivo e circolare: è ciò a cui alludiamo quando diciamo che l’insegnante insegna ai suoi allievi e impara a sua volta dai suoi allievi. Riprendendo l’esempio fatto prima, la ricerca di un diverso in­cipit al saggio sul pessimismo leopardiano può diventare causa di una diversa – nuova, anche inaspettata – interpretazione di Leopardi. Si tratterà di una combinazione di A.1 e A.2, o per meglio dire di una premessa al cambiamento di ordine superiore (A.2). Prendiamo il caso di un ragazzo che non è affatto interessato alla lettura di romanzi (è abituato a passare il suo tempo con i videogiochi), e che un giorno legge, per diletto o per obbligo, un intero romanzo (A.1): può darsi che questo evento, anche casuale, generi in lui la predisposizione ad amare la lettura (A.2), pur continuando egli ad amare i videogiochi come prima, o continuando ad amarli ma in modo diverso.

I livelli di apprendimento infatti non sono soltanto successivi nel tempo, ma sono anche intrecciati, e si presentano a ogni livello scolare. A scuola, ai vari gradi di scolarità, cambiano semmai i ‘contenuti’, gli oggetti dello studio. E cambiano anche la quantità, l’intensità delle occasioni di apprendimento automatico, che è inconsapevole o per predisposizione naturale (come il mangiare e bere quando si ha fame e sete), o per abitudini acquisite nel tempo (come per esempio il consultare il dizionario dei sinonimi ogni volta che si scrive qualcosa). L’acquisizione consapevole di certi apprendimenti è necessaria quanto l’acquisizione di abitudini automatiche: gli esseri umani sono dotati di coscienza, è vero, ma la coscienza è limitata, e va attivata saggiamente; ed è altrettanto saggio impegnarsi a mantenere costanti le soglie di flessibilità (a livello somatico ciò avviene automaticamente, in virtù dei circuiti omeostatici), in quanto la tendenza – specifica degli esseri umani – ad accrescere a dismisura, a massimizzare piuttosto che a ottimizzare una singola variabile (più denaro, più consumi, più informazione, più velocità…) può ‘mandare in fuga’ il sistema o impedire l’emergere – anche casuale – di alternative, di soluzioni nuove.

Nella scuola, una felice combinazione di rigore e immaginazione è quanto mai necessaria: se, nello svolgere un tema, avranno imparato a mettere automaticamente le maiuscole necessarie, a usare adeguatamente i segni di punteggiatura, a concordare soggetto e predicato, e così via, gli allievi potranno attivare consapevolezza e flessibilità per tenere sotto controllo il piano logico del discorso, il peso semantico delle parole… e forse, proprio in virtù di un solido ancoraggio ad apprendimenti ‘convenzionali’, sarà possibile che il pensiero creativo – una idea geniale – si faccia agevolmente strada e trovi una forma.

 Fin qui abbiamo fatto solo dei cenni all’A.2. Analizziamolo ora con più attenzione. Bateson definisce l’A.2 un “cambiamento nel processo di A.1“.

Nell’ambito più generale della vita di un individuo, l’A.2 è ‘adattativo’, è costituito cioè dall’insieme degli apprendimenti che un soggetto ha selezionato, nel tempo, considerandoli per sé vantaggiosi. L’A.2 quindi fa meno ricorso al metodo detto ‘per tentativi ed errori’, in quanto chi apprende ha potuto verificare che la tipologia delle sue risposte agli stimoli, dapprima più volte ‘tentate’, corrette e via via selezionate, sono ‘giuste’ (al di là del fatto che ciò sia effettivamente ‘vero’ per coloro i quali osservano e giudicano quei comportamenti). L’apprendere ad apprendere (l’A.2, per l’appunto) può essere quindi ‘meccanico’, e tale che ‘migliora’ nel tempo: gli apprendimenti zero e 1. ne rafforzano la struttura (l’A.2 potrebbe definirsi la ‘cornice’ degli apprendimenti zero e 1) in modo quasi fatalistico: ciò che ad Y appare una smentita della ‘giustezza’ di un comportamento di X di fronte a un certo evento, agli occhi di X quell’evento convaliderà le sue previsioni e l’adeguatezza della sua risposta, in altre parole, confermerà le sue pre-conoscenze, i suoi pre-giudizi.

Diremo inoltre che l’A.1 si differenzia dall’A.2 non soltanto perché quest’ultimo è ‘radicato’, ‘incorporato’ nel soggetto, ma anche nella misura in cui un osservatore esterno, sulla base delle sue preconoscenze, lo riconoscerà come tale, vale a dire che, spostando l’attenzione dal soggetto che apprende a colui che osserva e valuta una persona, la differenza tra A.1 e A.2 potrà non emergere oppure i due livelli potrebbero essere confusi. Nella scuola in particolar modo, dove l’attenzione è incentrata sui materiali oggetto di studio, l’A.1 può facilmente manifestarsi a un osservatore (a un insegnante) in forme non dissimili da soggetto a soggetto, proprio in quanto l’A.1 viene riferito a un ‘oggetto’ esterno, rispetto al quale è piuttosto facile riscontrare l’adeguatezza o l’inadeguatezza di una prestazione. Per fare un esempio, cinque allievi risolveranno un problema di geometria seguendo un identico procedimento e riceveranno una identica valutazione. L’A.2 invece non si presenta quasi mai nelle stesse forme. Infatti, sottoposti agli stessi stimoli, coloro che apprendono non migliorano in modo uniforme il loro modo automatico di apprendere ad apprendere: ciò va messo in relazione, come abbiamo già detto, con gli apprendimenti acquisiti, fin dall’infanzia, i quali strutturano il significato che ciascuno assegna agli stimoli esterni, attribuzione di valore e loro collocazione in una scala gerarchica, entro un ordine di significati e di valori preesistenti, con i quali nuovi e vecchi apprendimenti si combinano. Tornando all’esempio fatti poc’anzi, i cinque problemi di geometria, pur se identici nel procedimento, saranno stati generati da un diverso stile di apprendimento (e in certi dettagli non sarà difficile notarlo); inoltre, sarà diverso il ‘valore’ che ciascun allievo darà alla geometria, diverse le aspettative, diversi gli esiti nel tempo, eccetera.

In altre parole, e più in generale, l’A.2 ha a che fare con quello che chiamiamo il ‘carattere’ di una persona; questo, se pure definisce la sua peculiare ‘identità’, va visto come non del tutto ‘dentro’ la persona ma nel suo manifestarsi in un contesto di relazione con altre persone (e in generale con l’ambiente esterno), cosa che autorizza a dare ‘etichette’ diverse a differenti ‘caratteri’: per esempio, diremo di uno che è ‘fatalista’ in quanto mostra la tendenza a vedere attorno a sé certi eventi come immodificabili, diremo di un altro che è ‘ingegnoso’ perché si industria a cavarsi dagli impicci, ecc. Nell’etichettare un carattere occorre però essere cauti: chi riassume in un nome il carattere altrui è anch’egli ‘strutturato in un carattere’; inoltre, se è un educatore, potrebbe essere tentato di intervenire sulla personalità di un allievo con la stessa determinazione con cui pianifica e tiene sotto controllo (e qui è giusto che sia così) lo svolgimento di un programma – i contenuti di una disciplina, l’organizzazione dello studio -, in poche parole l’A.1 (e, ovviamente, l’A.zero).

In ambito scolastico, l’A.2 non rientra in un ‘programma’, per meglio dire non è programmabile come invece lo sono l’A.zero e l’A.1. Un educatore può impegnarsi a capire il mondo astratto delle idee e l’insieme delle esperienze che hanno generato, in un certo suo allievo, quel suo peculiare modo di interpretare la realtà, la sua peculiare ‘intelligenza’, le sue rigidità, i suoi pre-giudizi; e ciò lo aiuterà a tenere sempre aperta la relazione con lui (e con gli altri studenti), a calibrare e differenziare i suoi personali interventi. Insomma, i modi di intervenire di un educatore sull’A.2 richiedono molta più cautela di quanta ne occorre per gli interventi che egli predispone circa gli altri livelli di apprendimento. Se non esiterà nel pretendere che tutti gli allievi imparino le norme della punteggiatura (i vincoli, del resto, sono stabiliti dai programmi ministeriali: non è l’insegnante che li inventa), un insegnante dovrà calibrare, adattare i messaggi relativi alla componente psicologica dei singoli allievi. Quel messaggio che per un ragazzo ‘timido’ o ‘pedante’ risulterà uno stimolo che fa emergere un lato nascosto o non valorizzato del suo carattere – “Lascia perdere per un po’ i libri, segui il corso di teatro” -, per un ragazzo ‘iperattivo’ o ‘svogliato’ potrebbe risultare uno svan­taggioso rinforzo di un aspetto prorompente del suo ‘carattere’, che non lo aiuta ad andar bene negli studi (sempre se consideriamo lo studio come attività necessaria, a scuola).

In conclusione, un educatore, se è un insegnante di scuola, dovrà anche imparare a tener conto delle diversità ‘caratteriali’ dei suoi studenti pur svolgendo per essi lo stesso programma.

Da quanto detto finora apparirà chiaro che l’A.2 si caratterizza per un grado di inconsapevolezza maggiore rispetto ai precedenti livelli di apprendimento, ed è per questo che potremmo definirlo (quasi) ‘inestirpabile’. Ciò comporta che, laddove i contesti e i casi della vita rendono difficile a una persona – ‘per come essa è fatta’ – districarsi senza soffrire nelle varie contingenze, dovrà impegnarsi a modificare il proprio modo di ‘vedere il mondo’ (qualcuno lo fa con l’aiuto di uno psicoterapeuta): si tratta dell’A.3, di cui qui non ci occuperemo.

Noi qui tralasceremo anche i casi gravi di ‘disturbi della personalità’ (disturbi, s’intende, in relazione a ciò che definiamo ‘comportamento normale’ o ‘intelligenza normale’), per considerare invece le ‘normali peculiarità’ degli studenti; per un discorso, insomma, che faccia chiarezza sull’uso della locuzione ‘apprendere ad apprendere’. Già quando è entrato nella prima scuola ogni bambino ha imparato ad apprendere, in quanto ha esercitato l’A.2 da che è nato, in ambito familiare, e in contesti che si sono quotidianamente ripetuti (questo è importante ricordarlo). La scuola dell’infanzia accoglie, educa il bambino, assecondando le sue ‘tendenze’ e stimolando nuove curiosità; e tutto viene vissuto dal bambino alla luce dei primissimi precedenti apprendimenti: senza questi (senza questi pre-giudizi) il mondo apparirebbe ‘vuoto’ (ciò è impossibile). Ed è in virtù dell’A.2 – del significato che una creatura, crescendo, darà all’esperienza – che è possibile quella che Bateson chiama ‘l’uscita creativa’: a causa di una difficoltà o di particolari stati d’animo, una persona re-interpreta l’esperienza, vede in modo nuovo la realtà, sempre alla luce degli apprendimenti profondi – mai uguali agli apprendimenti altrui – che ha acquisito stando al mondo.

Nella scuola, l’apertura a esperienze nuove – al fare e al saper fare – che stimolino creatività e immaginazione può venire da qualunque versante: ci sono indubbiamente materie di studio per vocazione ‘creative’ (la musica, il disegno, pratiche ginniche come la danza, e così via), tuttavia nessuna materia è ‘in sé’ creativa e tutte lo sono potenzialmente: in ogni campo della conoscenza, saranno il modo di acquisire le conoscenze, la padronanza delle nozioni e del metodo, la quantità e la qualità delle abitudini automatiche (solide e profonde in quanto non consapevoli) i fattori che potranno preludere a un ‘cambiamento di secondo ordine’, al confine con quell’ordine superiore di apprendimento (A.3) nel quale può attivarsi ‘l’uscita creativa’: da un modo insolito, non stereotipato, non del tutto intenzionale di rapportarsi al mondo, si giunge a guardare il mondo come non lo si è mai guardato.

L’abbandono degli stereotipi avviene di continuo, anche senza che una persona se ne renda conto, e nella prima crescita ciò può essere stimolato, e preferibilmente non programmato, dall’educatore, allorché egli stesso abbandona di tanto in tanto norme prestabilite e manifesta la sua propria capacità d’invenzione. Bateson fa l’esempio della focena addestrata nella vasca a fare volteggi da esibire al pubblico (certe e non altre configurazioni), a comando, sulla base di esercizi uniformi, ripetuti, quindi incorporati dalla focena. Un bel giorno però succede che l’addestratore, nel corso di un esercizio di addestramento, alla sequenza già sperimentata dello stimolo-risposta (per esempio: un salto doppio, due pesci in premio) introduce una variazione, fa cioè una richiesta inedita, a cui la focena non può rispondere con una reazione pre-ordinata. La focena è inquieta, fino ad allora le era chiaro l’ordine sequenziale di domande e risposte, si agita nell’acqua fino a che ‘inventa’: in virtù delle tante configurazioni che ha imparato a eseguire, e in virtù della (forse inconsapevole) creatività dell’addestratore (il quale quel giorno ha cambiato strategia: gli ha dato ‘pesci non guadagnati’), fa a modo suo: un’infinità di giravolte in aria e nell’acqua, una coreografia mai eseguita fino ad allora, e che è una variazione inedita delle precedenti.

In conclusione, sarebbe un grave errore sottovalutare a scuola gli apprendimenti zero e 1, quelli sui quali la scuola può per davvero esercitare un controllo, e che può pianificare, insegnare, correggere con buone probabilità di successo: nessun altro ente educativo può far questo. E sarebbe un grave errore non tener conto che i bambini e i ragazzi ‘sono focene’: qualche volta occorre che l’insegnante chieda loro quello che loro non s’aspettano. La risposta sarà tanto più riuscita – formalmente riuscita – quanto più insegnante e allievi saranno in sintonia; vale a dire che l’insegnate dovrà essere in grado di stimolare la risposta e di apprezzarne, dopo, l’estetica.

* pubblicato su “Insegnare”, agosto 2000

1Queste mie riflessioni prendono spunto dai saggi di Gregory Bateson “Le categorie logiche dell’apprendimento e della comunicazione” e “Pianificazione sociale e deuteroapprendimento”, in Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976 – sedicesima edizione, con l’aggiunta di nuovi saggi, Milano 2000.

Bateson scrisse il primo dei due articoli qui richiamati nel 1964, sulla base di ricerche compiute agli inizi degli anni Quaranta.

Il questo mio articolo non ho riassunto fedelmente la teoria di Bateson sull’apprendimento: ho piuttosto ragionato attorno ad essa, alla luce della mia esperienza di insegnante di scuola.

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