MENTE
Il programma di naturalizzazione e il rapporto mente/cervello
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Introduzione
Nelle pagine che seguono prenderò in considerazione gli interventi che vari
studiosi hanno fatto a proposito del programma di naturalizzazione proposto
recentemente da Parisi (2000). In particolare, mi riferisco agli interventi che
sono stati pubblicati su questa stessa rivista lo scorso aprile. Tali scritti
sono stati, per me, una fonte di fecondissima riflessione che mi ha portato a
chiarire a me stesso alcuni punti di cruciale interesse nell’ambito degli studi
dedicati alla mente. Nell’esporre le mie riflessioni ho cercato di seguire una
logica che fa centro sui rapporti tra mente e cervello e su come questi rapporti
siano impostati sulla base dei presupposti teorici assunti dai vari studiosi,
comprendendo anche me stesso, cercando di esplicitare i punti di convergenza e
quelli di divergenza. Quello che ne viene fuori è, mi pare, una significativa
condivisione del fatto che la mente derivi dal cervello, anche se a questa tesi
si da una sfumatura diversa determinata dalla particolare formazione
intellettuale di ciascuno degli interlocutori. Le divergenze, invece, nascono da
due fattori fondamentali: 1. pensare che tematizzare il nesso cervello-mente sia
significativo per comprendere quest’ultima ( e costruire un modello esplicativo
unico sia per il cervello che per la mente); 2. pensare che gli strumenti
concettuali finora utilizzati nello studio della mente non siano più sufficienti
a comprendere che cosa essa sia ( e dunque dotarsi di elementi teorici non
tradizionali che riescano ad eliminare questa insufficienza). Non tutti i
ricercatori in campo condividono questi assunti e da ciò deriva il dibattito.
Per quello che mi riguarda, ritengo che le argomentazioni contro questi due
assunti non siano del tutto convincenti e perciò ho cercato di addurre temi che,
peraltro, sono in larga parte ascrivibili al programma proposto da Parisi,
sperando di apportare un ulteriore contributo alla ricerca.
Su Castelfranchi: le funzioni cerebrali e quelle mentali
Cosa fare per risolvere il mind/body problem? Questo è il quadro di riferimento
teorico all’interno del quale è possibile porsi il problema dei rapporti mind/brain.
Castelfranchi (2000) sostiene che:
la mente è un’espressione funzionale del cervello […]; complementarmente, solo
una descrizione funzionale del cervello e della sua attività ci avvicina alla
mente dal versante del cervello.
Questa affermazione è, io penso, pienamente condivisa e condivisibile, e dunque
non la discuterò oltre. Sottoscrivo anche la tesi per cui la mente deve essere
studiata ad un certo livello di astrazione tale che possa rendere conto della
sua struttura funzionale. Quello che invece mi sembra bisognoso di discussione è
l’affermazione di Castelfranchi (ma anche di molti di coloro i quali si occupano
di IA) che questo livello di astrazione possa essere individuato e studiato
indipendentemente dal livello di astrazione utilizzato per individuare e
studiare le funzioni del cervello, e che per riuscire a formulare una teoria
generale della mente si dovrebbe addirittura studiare la mente indipendentemente
dai cervelli biologici. Tesi, questa, plausibile ad una prima analisi. Però, mi
sembra che essa comporti almeno due assunzioni dell’autonomia del mentale
rispetto al cerebrale, di cui una ontologica e l’altra di pratica di ricerca:
1. il livello di astrazione delle funzioni mentali può, in linea di principio,
non essere influenzato dal livello di astrazione delle funzioni cerebrali; 2. il
livello di astrazione delle funzioni mentali può e dovrebbe essere individuato
indipendentemente da qualsiasi risultato sperimentale relativo al cervello.
Sostenere che è possibile un livello di astrazione del mentale tale che esso sia
indipendentemente definito da quello cerebrale implica che esso non ha, in linea
di principio, relazioni significative con quest’ultimo, cioè che tale livello
non sia influenzato in maniera significativa dal livello cerebrale. E’ lo stile
funzionalista, à la Fodor per esempio, per cui le funzioni mentali hanno una
qualche implementazione nel cervello, ma questo non è importante ai fini di
stabilire quali siano queste funzioni. In altre parole le funzioni mentali sono
distinte dalle funzioni cerebrali. D’altro canto, sostenere che per potere
costituire una teoria generale della mente si dovrebbe studiare la mente
indipendentemente dal cervello implica che le teorie della mente a nostra
disposizione sono state formulate indipendentemente dallo studio del cervello
(il che, per la maggior parte di esse, è storicamente vero) e che tali teorie
non solo sono valide ma anche le migliori che possano essere formulate allo
stato attuale delle nostre conoscenze. Un concetto chiave delle due tesi e
quello di autonomia. E’ da esso, infatti, che si originano le particolari
concezioni a proposito dei rapporti mente/cervello. Castelfranchi sostiene che
“autonomo”, nel suo caso, significa connesso ma distinto. Egli, infatti,
sottoscrive la tesi per cui occorre un comune livello di rappresentazione del
mentale e del cerebrale, ed individua tale livello comune sul piano delle
descrizioni funzionali ed informazionali. In seguito, osservando che le reti
neurali sono dei sistemi che operano anche in termini simbolici, si pone una
domanda:
Se il simbolo ha un suo riscontro materiale implementabile anche nelle reti
neurali artificiali (e possibilmente quindi in quelle naturali), perché non
dovrebbero averlo le credenze, gli scopi, le intenzioni [cioè entità del livello
mentale] che sono postulati essere – da parte dei cognitivisti – null’altro che
dei simboli svolgenti una particolare funzione?
In altre parole, Castelfranchi ci sta dicendo che il livello del mentale è
descrivibile in termini simbolici. Fin qui nulla di particolarmente
sconvolgente. Tuttavia, se il piano del mentale e del cerebrale sono distinti ma
connessi, e se il problema più difficile da risolvere è quello di trovare un
piano di descrizione comune dei due livelli allora…. È possibile studiare il
cervello in termini di simboli utilizzati normalmente per studiare la mente.
Questa è una conclusione che si può trarre legittimamente dal ragionamento di
Castelfranchi. Ma è una conclusione che pensa di risolvere il divario esistente
tra teorie della mente e teorie del cervello facendo un’operazione riduzionista
di segno opposto a quelle più diffuse e conosciute, cioè schiaccia il cervello
sulla mente lasciando spazio ad un’interpretazione dei rapporti mente/cervello
che tenta di risolvere tale rapporto in termini di simboli logico-formali.
Castelfranchi, infatti continua:
La mente elabora informazioni, ed il corpo spedisce e riceve informazioni.
Modelli di information-processing sembrano dunque in grado di dar conto della
loro «interfaccia» ed interazione. (Castelfranchi 2000 pag. 44)
Cioè, il livello di descrizione comune al cervello ed alla mente è quello dell’information
processing. Ma il problema dei rapporti mente/cervello nasce proprio perché tale
modello è inadeguato a descrivere i processi cerebrali! In altre parole, il
problema è che spedire ed inviare informazioni da parte del corpo (cervello)
implica funzioni che non sono della stessa natura di quelle che l’IA usa per
spiegare la mente come elaboratore di informazioni. Un modello di spiegazione
del mentale ispirato all’information processing assume che l’output è prodotto
in maniera causalmente diretta a partire dall’input. Una variazione finita del
suo stato modifica in maniera finita il suo stato futuro. In questo senso, il
rapporto tra input e output è una relazione lineare che permette la previsione
analitica dell’output. Il modo in cui funziona il cervello, invece, produce
output che non sono prevedibili a partire dall’input. Una variazione
infinitamente piccola dello suo stato presente può produrre modificazioni
finite, in un tempo finito, per uno stato futuro. I pattern di attivazione del
cervello (che il connessionismo assimila a strutture funzionali mentali) si
colloca e si costituisce su un piano differente rispetto a quello degli input
che esso riceve. In questo caso il rapporto tra input ed output cerebrali è una
relazione non lineare, causalmente indiretta, che non permette previsioni
analitiche. In altre parole, l’emergenza di un certo pattern mentale a partire
dall’attivazione cerebrale è una funzione non-lineare degli input elaborati dal
cervello. Il livello di astrazione del cervello, dunque, è definito e studiato
in termini di sistemi complessi gestiti da funzioni non-lineari, mentre il
livello di astrazione della mente voluto dall’IA è definito e studiato in
termini di sistemi gestiti da funzioni lineari. C’è, dunque, una frattura tra i
due piani che, nei termini in cui Castelfranchi pone la questione, è
difficilmente riducibile. I problemi nascono, a mio parere, dall’ambiguità con
cui è usata la nozione di funzione. In effetti, nella discussione si tende ad
utilizzare tale nozione in due modi:
1. Nei termini in cui è utilizzata dall’IA cioè come funzione psicologica che,
descrivendo una parte del mondo macroscopicamente osservabile, è impostata in
termini lineari. 2. In termini strettamente matematici, per cui essa può essere
una struttura astratta anche di tipo non-lineare.
D’altro canto, la deduzione di Castelfranchi per cui se la mente è una funzione
e se il vocabolario funzionale che descrive il cervello non è sufficiente perché
la mente deriva anche da interazioni extra-neurali (come sostiene Parisi),
allora si potrebbero usare funzioni non-neurali, è molto convincente. Ma non
risolve il problema del piano comune di astrazione all’interno del quale
dovrebbero essere studiati mente e cervello. Anzi, a mio parere, lo accentua
perché moltiplica ulteriormente i livelli di astrazione (neurale, extra-neurale,
non-neurale) senza riuscire a cogliere ciò che dovrebbe accomunarli. Ora, il
problema che si è posto all’inizio è quello di riuscire a cogliere un livello di
descrizione funzionale sufficientemente astratto da potere rendere conto di come
i processi cerebrali possano dare adito ai processi mentali. Anche Castelfranchi
sottolinea l’importanza di tale questione.
Chi volesse fare una teoria generale della mente, delle menti possibili (e non
solo di quelle accidentalmente evolutesi in natura e per ora da noi conosciute),
dovrebbe studiare la mente anche indipendentemente dai cervelli biologici
E ancora:
il mio punto è […] che ambirei ad una teoria della mente, intelligenza, ecc.
capace di coprire e dar conto anche di possibili menti, intelligenze artificiali
(aliene) […] ma che per accettare questo si deve avere una nozione astratta di
mente ed intelligenza. Questo obiettivo obbliga a non identificare mente o
intelligenza con la loro dettagliata e specifica realizzazione nel cervello
(corpo) umano.
Il problema è che, in questi termini, la questione slitta sul piano metafisico
(nel senso cattivo del termine). Per elaborare astrazioni si dovrà pur partire
da livelli osservativi! E se il nostro problema è comprendere i rapporti
mente/cervello si dovrà pur partire dall’osservazione delle correlazioni tra
attività cerebrale ed attività mentale così come si danno in natura. Francamente
non riesco a comprendere che cosa possa essere un livello di astrazione generale
della mente se si prescinde dai livelli osservativi. Più specificatamente, non
riesco a comprendere che cosa possa essere una mente laddove ci si senta
addirittura in obbligo di prescindere dalla loro realizzazione nel cervello. In
fondo si parla propriamente di mente soltanto per gli esseri umani dotati di un
cervello che funziona normalmente, ed è soltanto per estrapolazione che
utilizziamo tale concetto, per esempio, per i computer o le reti neurali (e
forse sarebbe meglio lasciare da parte gli alieni). D’altro canto sono d’accordo
con Castelfranchi quando dice che la simulazione della mente è importante per
capire in che cosa essa consista propriamente. Ma proprio questa tesi ci fa
comprendere che tutte le simulazioni di cui finora disponiamo sono solo dei
modelli di qualcosa che si dà in natura e che è per l’appunto, la mente umana.
Adesso si tratta di scegliere il modello (o metafora) che, alla luce delle
conoscenze disponibili, ci sembrerà più adatto a spiegare i fatti e il più
promettente dal punto di vista della sua euristica. Ora, a me sembra che il
concepire il cervello come un sistema dinamico sia il primo passo per costruire
modelli scientifici più adeguati e comprensivi non solo dei fatti neurologici ma
anche rispetto a come questi fatti corrispondano, in maniera complessa, ai fatti
mentali. Penso anche che questo non sia un punto debole di una teoria dei
rapporti mente/cervello, come invece sostiene Castelfranchi quando dice che
occorre qualcosa di più caratterizzante; per la semplice buona ragione che il
modello dinamico descrive bene i problemi che ci riguardano e non è affatto
necessario che tale modello sia differente da un modello che descrive
l’andamento del mercato. Se così fosse si dovrebbe accettare anche l’idea che il
rapporto causa-effetto della fisica classica sia un punto debole di quella
scienza perché tale rapporto può essere applicato ad un’infinità di fenomeni che
non appartengono alla fisica classica. E’ pur vero che il rapporto
causa-effetto, nella fisica classica è specificato da una serie di formule
applicabili soltanto a quell’ambito scientifico. Ma è altrettanto vero che il
rapporto mente/cervello è descritto come un particolare sistema dinamico
definito da particolari formule matematiche (la regola Delta, per esempio).
D’altro canto, anche per il modello rappresentazionale si potrebbe richiedere
qualcosa di più caratterizzante, dal momento che la nozione di rappresentazione
è utilizzata da una molteplicità di discipline che spaziano dall’arte
all’economia. In ogni caso, sono d’accordo con Castelfranchi quando sostiene che
vi è un’effettiva autonomia dei livelli di spiegazione macroscopici rispetto a
quelli microscopici. L’esempio che egli adduce a sostegno di questa tesi, però,
è piuttosto infelice. In effetti, il fatto che in fisica i due livelli siano
separati ed utilizzano modelli di spiegazione differenti non è percepito come un
punto di forza da parte degli stessi fisici; non vedo perché chi si occupa del
rapporto mente/cervello debba adottare da un’altra disciplina elementi di
imbarazzo per quella, spacciandoli per elementi di grande pregio scientifico.
D’altro canto, mi pare che l’autonomia dei due livelli di realtà sia più che
altro una questione di pragmatica scientifica piuttosto che di verità
epistemologica o ontologica . Un altro punto interessante è, invece,
l’indipendenza dei livelli funzionali ed informazionali rispetto al loro
substrato. E’ senz’altro vero che essi sono indipendenti dal substrato, visto
che possono essere implementati in substrati diversi. Ma mi pare che questa
osservazione sia inutile perché il livello microscopico descritto in termini
dinamici è anch’esso un livello funzionale! Non si tratta affatto di materia
bruta e informe! Ci sono molte osservazioni da fare rispetto al materialismo
della neurobiologia a cui accenna Castelfranchi (2000). Personalmente sono
convinto che qualsiasi neurobiologo sia disposto a sottoscrivere la tesi per cui
la neurobiologia si interessa di funzioni cerebrali e non del fatto che il
cervello possa essere stretto fra le mani o cose del genere. La neurobiologia è
una teoria il cui oggetto di studio è quello delle funzioni cerebrali e non una
teoria della materia cerebrale se per “materia” si intende un ammasso informe e
non strutturato (cosa che evidentemente non ha alcun senso). Da questo punto di
vista la neurobiologia è una teoria funzionalista. Con l’ulteriore
specificazione che il suo oggetto di studio consiste in funzioni cerebrali. In
questo senso, allora, non ci sarebbe alcun problema rispetto a questioni di
implementazione. Purché le funzioni siano quelle che fanno funzionare il
cervello è possibile implementarle in qualsiasi substrato (azoto, silicio o
qualsiasi altro materiale che si trovi adeguato allo scopo).
Ora, questo è il punto cruciale. E’ da questo punto che cominciano a sorgere
domande come:
1. è utile per l’avanzamento della ricerca continuare a mantenere separate
teorie di spiegazione del mentale e teorie di spiegazione del cerebrale? 2. le
funzioni che definiscono il livello di realtà del mentale sono di natura diversa
rispetto alle funzioni che definiscono il livello di realtà del cerebrale? 3. se
accogliamo la tesi per cui non c’è mente senza cervello possiamo negare che le
funzioni mentali siano emergenze funzionali delle funzioni cerebrali? 4. se le
funzioni mentali sono emergenze delle funzioni cerebrali di quali strumenti ci
dobbiamo dotare per descrivere e spiegare questo rapporto?
Tali domande forse sono più congruenti con i problemi che noi ci poniamo
rispetto ai rapporti mente/cervello ed aprono il campo ad una nuova prospettiva
di ricerca che, a questo punto, deve utilizzare strumenti teorici non soliti,
anche se già disponibili all’interno del mondo scientifico e filosofico. In
altre parole, la partita non si gioca tanto sul fatto che cerebrale e mentale
sono distinti ma connessi. Questo è un punto che è ormai acquisito da tutti i
ricercatori. La partita si gioca, invece, sul fatto che occorre, per prima cosa,
delineare un orizzonte di ricerca che possa connettere i due termini della
questione, mantenendone l’autonomia funzionale, e poi cercare di specificare il
campo di ricerca così circoscritto. Questo però, è possibile soltanto se si fa
uno sforzo nel senso di un quadro di riferimento concettuale che tenda ad
unificare il campo della ricerca e non verso una prospettiva la cui
preoccupazione sia quella di mantenere distinti il cervello e la mente. Insomma,
argomentare sulla distinzione di cervello e mente non serve a molto se
contemporaneamente non si argomenta sulla loro connessione, e se non si fa uno
sforzo di specificazione di tale connessione. E’ anche vero, peraltro, che i
rapporti tra i vari livelli di realtà non sono solo di analisi e/o di emergenza
(come, a ragione, sostiene Castelfranchi), e che vi è anche una determinazione
che procede dai livelli più alti verso quelli più bassi. Tuttavia, ciò non
pregiudica il fatto che i rapporti di emergenza sono fondamentali ed importanti.
Semmai questa osservazione ci fa comprendere che è opportuno affrontare i
problemi relativi alla mente considerando anche le influenze che il mondo, nel
senso più ampio del termine, ha sulla mente individuale. Queste considerazioni
convergono, comunque, verso un punto che è messo ben in luce da Castelfranchi:
il problema vero dell’«integrazione» [dei livelli di realtà] è capire livello
per livello come le categorie e i principi di quel livello si riconducono a
quelli del livello sottostante. Come dal micro-livello emergono macro-oggetti e
comportamenti, e come il macro-livello determina – se li determina – i processi
e i caratteri del micro-livello: cioè se c’è una co-evoluzione e co-emergenza
del micro e del macro.
La proposta di Castelfranchi (2000) di utilizzare teorie ponte per connettere
insieme teorie di livelli di realtà distinti sembra allettante. Ma rispetto alla
proposta di utilizzare teorie ponte di ogni epoca e specie credo che valga
l’osservazione di Aristotele alla tesi platonica che voleva gli enti matematici
come intermediari tra il mondo delle idee e il mondo reale (e dunque la
matematica come teoria ponte tra i due livelli di realtà). L’osservazione che fa
Aristotele è: se la matematica è una teoria che funge da ponte tra mondo reale e
mondo delle idee, qual è la teoria intermediaria tra il mondo delle idee e il
mondo matematico, da un lato, e il mondo matematico e quello reale, dall’altro?
Detta in forma assertoria, l’osservazione aristotelica è: se pensiamo di
utilizzare teorie ponte tra teorie scientifiche distinte moltiplichiamo ad
infinitum le teorie “scientifiche” senza risolvere alcunché, e cadiamo in quella
che Hegel chiamerebbe la “cattiva infinità”. Se si considera l’osservazione
aristotelica pertinente ai problemi relativi al rapporto mente/cervello che ci
interessano (cosa che io faccio) allora mi pare che la prospettiva delle teorie
ponte non sia molto interessante. Ripetiamoci la domanda allora: cosa facciamo
per risolvere il problema pratico della connessione tra discipline (e livelli di
realtà) che riteniamo connessi? A me pare che la prospettiva di una iper-teoria,
che Castelfranchi giudica poco convincente (Castelfranchi 2000) non sia, in fin
dei conti, tale. Vediamo perché. La stratificazione del vocabolario scientifico
che Castelfranchi (2000) richiama come necessità scientifica è indubbiamente
intelligente, utile e addirittura indispensabile. Tuttavia per potere parlare di
stratificazione occorre un quadro di riferimento comune ed unico per i vari
livelli di stratificazione. Cioè: non ci sono strati se non c’è una struttura
unica, per l’appunto, stratificata. Quindi sarebbe opportuno pensare anche ad
una teoria che riesca a spiegare la struttura unica in quanto tale, ossia
l’universo teorico che si occupa, nel nostro caso, dei rapporti mente/cervello.
D’altro canto, Castelfranchi (2000) parla di framework teorici comuni che non mi
sembrano molto differenti, nella sostanza, da una iper-teoria, se non per il
fatto che questi sono il risultato di migrazioni analogiche ed estensive di
paradigmi specialistici verso territori concettualmente più ampi (la teoria
dell’evoluzione, i sistemi dinamici complessi), mentre un’iper-teoria sarebbe un
modello esplicativo/costitutivo dell’universo scientifico relativo al problema
mente/cervello . In altre parole, un framework teorico comune sarebbe un fatto
epistemologico mentre un’iper-teoria sarebbe un fatto ontologico. E’ vero,
peraltro, che un framework comune (o un’iper-teoria) efficiente deve riuscire a
sviluppare ipotesi empiriche (e, aggiungo, sperimentalmente verificabili) quanto
più dettagliate e circostanziate possibile. Ma è altrettanto vero che se la
ricerca scientifica non si fa sulla base del presupposto (ontologico, metafisico
o ideologico per quanto si voglia) di un framework unificatore sarà molto
difficile raggiungere tali risultati. Operazione rischiosissima, questa di
assumere l’impegno ontologico richiesto da un’iper-teoria. Ma la ricerca si
alimenta di operazioni rischiose spesso impopolari . D’altro canto, l’idea di
un’iper-teoria non è ancora sufficiente per risolvere i nostri problemi. Occorre
specificare di che tipo di teoria si deve fare uso, qual è il suo livello di
astrazione, quali sono i suoi strumenti. E’ a questo punto che entra in gioco il
confronto tra teorie funzionaliste e teorie dinamiche. Castelfranchi (2000) dice
che non è utile una loro opposizione e che, invece, sarebbe più opportuno
pensare ad una loro integrazione. Tuttavia, a me pare che le teorie
funzionaliste nel senso più comune del termine cadano in una fallacia
sistematica. Esse dimenticano che una funzione è vincolata dal mezzo in cui è
implementata. Il funzionalismo, invece, definisce una funzione su base
osservativa psicologica (macroscopica) cioè considera il piano di realtà proprio
di una funzione quello della mente (macroscopico), e poi cerca di riprodurre una
funzione così specificata (cioè psicologicamente) indipendentemente dal fatto
che questa funzione possa essere di fatto vincolata da funzioni il cui livello
è, invece, quello del cervello (microscopico). Si badi che non sto dicendo che
il livello cerebrale (microscopico) è più reale o più vero di quello psicologico
(macroscopico). Sto dicendo semplicemente che un osservabile psicologico
(macroscopico) può essere vincolato e determinato in maniera complessa dal
livello cerebrale (microscopico). Non ci sono priorità o nessi causali
unidirezionali tra i due livelli funzionali. C’è però un rapporto di vincolo
complesso tra i due. Ora, a me pare che il modo in cui procedono le teorie
funzionaliste non sia il migliore perché esse fanno una scelta unilaterale
(escludono un vincolo che può essere importante per la spiegazione del nostro
oggetto di indagine) e dunque si precludono l’opportunità di un’analisi forse
più accorta e comprensiva. Forse è questo quello che intende Parisi (2000)
quando parla di un riduzionismo cattivo contrapposto al programma di
naturalizzazione che invece sarebbe una forma di “riduzionismo buono”.
Sicuramente è quello che intenderei io se dovessi dividere i miei interlocutori
in buoni e cattivi. D’altro canto, Castelfranchi (2000) sostiene che non c’è
nessun problema nel considerare le funzioni mentali in quanto funzioni
specificamente psicologiche e che anche se queste non avessero nulla a che fare
con le funzioni cerebrali questo non inficerebbe affatto la loro validità
scientifica. In un certo senso egli ha perfettamente ragione. Precisamente, la
correttezza di questa posizione consiste nel fatto che una spiegazione
scientifica del mentale definita sul piano di realtà psicologico è utile e
valida nella misura in cui ci permette di fare previsioni o, come io preferisco
dire, permette di gestire in maniera adattata quella parte del mondo che
chiamiamo mentale. In questo senso, dunque, le teorie funzionaliste definite sul
piano esclusivamente psicologico sono valide . Ma vi sono almeno due ragioni per
le quali è molto difficile accettare questa posizione:
1. considerare le teorie funzionali del piano mentale come valide
indipendentemente dalle teorie del piano cerebrale significa, per ciò stesso,
definirle non soltanto come autonome (cioè come teorie che determinano funzioni
valide nell’ambito del mentale), ma anche come, per l’appunto, indipendenti
rispetto a quelle del piano cerebrale (cioè come teorie che determinano funzioni
valide nell’ambito del mentale ma che escludono la possibilità che funzioni
cerebrali possano influire sul mentale). In altre parole, significa non dare
alcun vero peso al nesso mente/cervello, pur accettato dai ricercatori sul piano
dei buoni propositi; 2. de facto, sostenere la tesi dell’indipendenza del
mentale rispetto al cerebrale implica la condivisione di una prospettiva di
ricerca “cartesiana” che non si poneva affatto il problema dei rapporti
mente/cervello in termini di relazione intrinseca e costitutiva dei due livelli
di realtà. Cioè significa trattare il problema dei rapporti mente/cervello con
un armamentario teorico-concettuale che è, per ragioni storiche, palesemente
inadeguato.
A mio parere, dunque, è più opportuno che la ricerca si sforzi di elaborare una
metafisica (nel senso buono del termine) più aggiornata rispetto a quella
cartesiana, ponendosi come obiettivo anche l’elaborazione di strumenti teorici e
concettuali più adeguati alla tipologia dei problemi che intende affrontare.
Considerare il nesso mente/cervello come un nesso radicalmente significativo,
cioè cominciare a pensare che la mente sia un’emergenza del cerebrale e che, per
ciò stesso, non ci sono teorie psicologiche della mente valide indipendentemente
da teorie neurobiologiche del cervello, a mio parere, significa muovere i primi
passi in tal senso.
Detto questo, c’è un problema a proposito del monismo epistemologico e del
complementare pluralismo ontologico di Parisi (2000). Come è stato fatto
osservare, se si riconoscono diverse entità che trovano una collocazione
ontologica su piani distinti, è chiaro che le teorie scientifiche che dovrebbero
studiarle e renderne conto dovrebbero essere distinte secondo il piano di realtà
a cui si applicano, e dunque dovrebbero utilizzare nozioni e metodologie
appropriate rispetto al piano di realtà a cui si riferiscono. Da ciò consegue
che il monismo epistemologico non si accorda con il pluralismo ontologico. Resta
comunque il fatto che, secondo me, c’è una coerenza logica in ciò che dice
Parisi. Vediamo di trarne fuori i punti essenziali:
1. La realtà è molteplice; 2. ciascun aspetto di essa, inoltre, si trasforma in
termini evolutivi costituendo livelli di realtà distinti ma connessi; 3. vi è
una pluralità di scienze e ciascuna di esse spiega i diversi aspetti della
realtà e i differenti livelli evolutivi di realtà distinte; 4. tuttavia tali
scienze sono connesse perché riguardano tutte lo stesso mondo (quello in cui
viviamo); 5. perciò è opportuno che la nostra pratica scientifica tenda
all’integrazione delle varie discipline (soprattutto dopo che per secoli si è
fatto l’esatto contrario).
Il punto 5 è interpretato da Parisi come un incentivo culturale a praticare
un’epistemologia monista anche se l’impegno ontologico che la accompagna è ( per
i punti 1 e 2) pluralista. A me pare che la logica del programma di
naturalizzazione che Parisi propone abbia questa struttura logica che, aggiungo,
non mi pare affatto incongruente, benché l’assunzione del pluralismo ontologico
sembrerebbe entrare in contraddizione con la tesi 4 secondo le scienze
riguardano tutte lo stesso mondo. Ho detto “sembrerebbe” perché in realtà non mi
pare che le cose stiano così. Infatti la tesi 1 sostiene che la realtà è
molteplice, e la tesi 2 sostiene che la realtà ha livelli distinti ma connessi
che, unitamente alla tesi 4, integra e specifica la tesi 1. Tuttavia, c’è un
problema pratico molto serio da considerare, e cioè la difficoltà di rendere
conto in termini chimici, fisici e biologici di nozioni che appartengono a piani
di realtà distinti da quelli trattati da tali scienze. Per esempio: come
facciamo a parlare in termini neurali delle proprietà grammaticali di un
deittico? Cosa fare per risolvere questo problema pratico? E’ pur vero che c’è
una descrizione neurale di un deittico, nel senso che un qualsiasi deittico ha
un correlato neuronale individuabile e descrivibile in termini neurobiologici.
Ma la descrizione neurobiologica rimane confinata, per l’appunto, al livello
neurobiologico e non riesce a passare al piano linguistico. In altre parole, la
descrizione neurobiologica di un deittico è di utilità piuttosto limitata se
l’intento è quello di descrivere e spiegare il livello di realtà specifico della
linguistica…….O richiama una spiegazione talmente complicata e “pesante” (sempre
sul piano linguistico) che non regge il confronto con le spiegazioni
specificamente linguistiche dello stesso oggetto, indubbiamente più semplici,
eleganti, ed efficaci . Una soluzione al riguardo potrebbe essere quella di
costruire teorie esplicative specificamente dedicate ai nessi che legano due
livelli di realtà distinti. Nella fattispecie, sarebbe opportuno cominciare a
pensare ad elaborare teorie in grado di “tradurre” strutture e funzioni
cerebrali in strutture e funzioni mentali, permettendo di unire le due facce
della medaglia . Ho detto, comunque, che il problema è pratico perché mi pare
che, seppur da prospettive differenti, la maggior parte degli studiosi condivide
teoricamente la struttura della logica del programma di naturalizzazione nella
forma essenziale in cui io la riduco. Forse il problema diventa anche
terminologico nel momento in cui Parisi interpreta il punto 5 come monismo
epistemologico mentre altri (Castelfranchi 2000) lo interpretano come circolo
dialettico e altri ancora lo pensano come un momento di riflessione filosofica
di alto livello. Ma sui termini c’è sempre il tempo di intendersi.
Su Civita: il dualismo epistemologico per l’unità cervello/mente
In effetti, il monismo ontologico di Civita (2000), è soltanto superficialmente
in contraddizione con il pluralismo ontologico di Parisi. Anche Parisi (2000),
infatti, sostiene che non c’è mente se non c’è cervello (o, comunque, un
substrato materiale strutturato) e che la mente appartiene alla natura tanto
quanto il corpo. La differenza tra i due, invece, diventa sostanziale sul piano
epistemologico poiché il dualismo adottato da Civita, per cui teorie della mente
e teorie del cervello non sono sovrapponibili, è esattamente quanto negato da
Parisi. Qual è l’argomentazione di Civita a sostegno della propria posizione
epistemologica? A dire il vero non si trova nell’articolo in questione, una vera
e propria argomentazione ma soltanto delle affermazioni di principio. Civita
sostiene, infatti, che i concetti che usiamo per descrivere il cervello sono
irrimediabilmente inutilizzabili per descrivere la mente, e viceversa. Il
concetto di Io non è, secondo Civita, riconducibile ad un unico e rigoroso
concetto neurobiologico. Io penso, invece, che il concetto di cervello umano
(considerato nella sua interezza ed inserito in un determinato corpo che ha
avuto una sua storia di interazioni con il mondo, sia in termini ontogenetici
che filogenetici) sia un buon candidato per rappresentare la nozione di Io sul
versante neurobiologico. Tuttavia, se utilizziamo un modello sufficientemente
astratto tale che i concetti che lo costituiscono ed articolano possano essere
utilizzati per descrivere entrambi i livelli di realtà, allora la critica di
Civita non ha più ragione di essere . E’ vero, peraltro, che le simulazioni
connessioniste sono basate (tutte!), per usare la terminologia di Civita, su un
programma ad hoc nel senso che esse prendono in considerazione soltanto alcuni
aspetti del cervello/mente e ne tralasciano altri. Ma questo è vero per
qualsiasi teoria scientifica, ovvero per qualsiasi modello esplicativo della
realtà! Nessuna scienza è ancora riuscita a cogliere tutti gli aspetti della
realtà che prende in considerazione. Se così fosse avremmo raggiunto la
perfezione conoscitiva divina e non avrebbe più alcun senso discutere di
progresso scientifico. D’altro canto, le argomentazioni di Civita a sostegno del
suo monismo ontologico non mi sembrano del tutto corrette. Egli sostiene che
l’idea di un’attività mentale che si svolga in assenza di un’attività cerebrale
è letteralmente inconcepibile. Ciò non è vero perché sia l’IA che il
connessionismo concepiscono un’attività mentale che si svolge in assenza di un
cervello naturale (ma non in assenza di una struttura materiale attivata da
certe funzioni). D’altro canto, è vero che il dualismo cartesiano è sempre più
difficilmente sostenibile . La tesi per cui ad un processo cerebrale corrisponda
uno ed uno solo processo mentale (e viceversa) non è vera. Vi sono esperimenti e
simulazioni che dimostrano una notevole plasticità cerebrale, cioè il fatto che
ad una stessa prestazione cognitiva possono corrispondere differenti pattern di
attivazione di una rete neurale, e vi sono numerosi casi in cui si prova che
differenti prestazioni cognitive di un essere umano possono essere attivate da
una stessa area cerebrale. In questo tipo di affermazione Civita si impegna in
un materialismo piuttosto rozzo che non lascia alcuno spazio ad impostazioni
funzionaliste (nel senso più comprensivo in cui io intendo il funzionalismo)
che, invece, mostrano di essere particolarmente efficaci in questi ambiti.
Su Di Francesco: irriducibilità del mentale al cerebrale?
Di Francesco (2000), invece, richiama la nozione devidsoniana di sopravvenienza
degli stati mentali su quelli cerebrali ritenendola utile per superare l’impasse
in cui si trova la ricerca dedicata ai rapporti mente/cervello ed i tentativi di
riduzionismo di alcuni ricercatori (compreso lo stesso Parisi). Utilizzando il
concetto di sopravvenienza, egli dice, abbiamo raggiunto il vantaggio di rendere
inscindibili cervello e mente, e quindi siamo in una prospettiva che elimina
alla radice eventuali tesi dualiste. Tuttavia, anche se stabiliamo un rapporto
di covarianza tra i due piani (cerebrale e mentale) non riusciamo a comprendere
in che cosa consista tale rapporto, cioè non riusciamo a spiegare perché ad una
variazione di uno stato cerebrale si accompagna una variazione di uno stato
mentale (e viceversa). Il che non ci è molto di aiuto nell’avanzamento della
ricerca. Più interessante sembra, invece, la tesi searliana per cui
l’attivazione di certi pattern neuronali ed una sensazione cosciente di dolore
possono essere concepite come descrizioni collocate a livelli diversi dello
stesso sistema, poiché essa è una ulteriore versione dell’unità cervello/mente,
anche se non focalizza l’interesse sul nesso dei due livelli. Un po’ farraginosa
mi sembra la proposta di un monismo ontologico secondo il quale entità o
processi connessi causalmente sono di natura fisica, anche se i processi non
possono essere intesi come derivati direttamente da leggi fisiche (in quest’ultimo
caso Di Francesco parla di fisicalismo nomologico), benché il fine sia quello di
dare un status epistemologico rispettabile a discipline come la psicologia il
cui oggetto di studio sarebbe costituito da nessi causali emergenti da
interazioni peculiarmente fisiche. Il problema grosso si pone, osserva Di
Francesco, nel momento in cui si voglia chiarire il concetto di causalità e
soprattutto il relativo concetto di emergenza. La domanda chiave al riguardo è
la seguente:
le proprietà globali emergenti sono irriducibili a proprietà fisiche del livello
di base? (sono proprietà fondamentali che si aggiungono a quelle di base?).
Se la risposta a tale domanda è positiva ci troviamo comunque davanti al
problema di stabilire come tali proprietà emergano dal livello fisico, cioè qual
è la connessione tra i due livelli di realtà (fisico ed emergente).
Su Gozzano: il vincolo della struttura sulla funzione cognitiva
Gozzano entra in un campo minato quando dice che la mente non ha lo stesso
statuto ontologico del corpo. In effetti, credo che si possa sostenere
precisamente l’opposto, se consideriamo il corpo come un sistema funzionale.
Certo, la mente ha un indubitabile statuto fenomenologico che la differenzia
dallo statuto del corpo (che non esiteremmo a definire ontologico). Ma, mi
chiedo: se consideriamo la mente come un ente, non dobbiamo attribuirle un
qualche statuto ontologico (oltre che fenomenologico)? E lo stesso ragionamento
si può fare, invertendo i due termini chiave, a proposito del corpo! Penso che
questa impostazione sia, comunque, piuttosto fuorviante (viene prima l’uovo o la
gallina?). Più interessante mi sembra invece la tesi (Gozzano 2000) per cui
L’approccio alla mente non richiede strumenti concettuali validi solo per tale
campo di studi bensì concetti e analisi, in particolare di tipo funzionale, i
quali nondimeno colgano i fenomeni mentali in quanto tali.
Questa tesi implica allora che si cerchi una linea di continuità tra il mentale
ed il cerebrale. Gozzano individua tale continuità in un modello che faccia uso
di spiegazioni funzionaliste che debbono essere vincolate alla struttura
dell’organismo. Questa affermazione (di ascendenza piagetiana e che io condivido
pienamente) è fuori dal funzionalismo tradizionale, à la Fodor, ma ha una
ragione molto forte a suo sostegno: le funzioni sono vincolate dalla struttura
all’interno della quale sono attivate e quest’ultima, a sua volta, è vincolata
alle funzioni che la attivano. In altre parole, parlare di funzioni senz’altro
può essere utile quando si tenti di svilupparle (logicamente o matematicamente)
in termini generali, cioè astraendo dalle limitazioni reali ed accedendo allo
spazio dei possibili. Ma non appena si tenti di applicare le funzioni ad una
qualche struttura, allora è necessario tenere conto delle limitazioni (spesso
drastiche) che questa impone per definire il reale. Così, se definiamo come
funzioni cognitive le funzioni che di solito si utilizzano nei sistemi IA
classici (funzioni lineari), ci accorgiamo che esse possono essere applicate
soltanto a sistemi strutturali discreti e, ahimè, ci accorgiamo che tali
strutture funzionali danno adito soltanto ad alcuni aspetti dell’intelligenza
naturale e mancano di individuarla nella sua globalità e articolazione
complessa. Gozzano, comunque, continua dicendo che le funzioni mentali prendono
come argomenti elementi minimi fisici e danno luogo a valori cognitivi definiti
entro i limiti imposti dalla struttura (il cervello, il corpo). Per esempio, la
discriminazione sonora è una funzione che parte da elementi acustici è assume
valori di un certo tipo (per esempio, le vocali) entro certi limiti definiti
dalla struttura anatomica e neurofisiologica dell’orecchio. Naturalmente, nella
strutturazione del mentale, gli elementi minimi delle funzioni non sono soltanto
di tipo fisico. Piuttosto, variano al variare del livello e della complessità
della struttura. Possono essere considerati elementi minimi le discriminazioni
percettive (per il livello delle funzioni semi-concettuali), le discriminazioni
semi-concettuali (per il livello delle funzioni concettuali), i concetti (per il
livello delle funzioni discorsive), i discorsi (per il livello funzionale della
cultura). Nessuno di tali livelli funzionali, però, è riducibile al suo
immediato antecedente perché il sistema abbozzato da Gozzano è un sistema
palesemente complesso. In altre parole, ciascun livello è definito dagli
elementi del livello anteriore e in più dalla particolare funzione che lo
definisce, che è specifica di quel particolare livello e di nessun altro .
Su Legrenzi: la difficoltà di un approccio integrativo al rapporto
cervello/mente
Legrenzi, invece, sottolinea che la distinzione cartesiana tra res extensa e res
cogitans è piuttosto ingenua, dal momento che il rapporto mente/mondo che si
osserva nei bambini è già molto più complicato di quanto potesse immaginare
Cartesio I bambini di tre anni non solo percepiscono il mondo oggettivo ma lo
concettualizzano e simbolizzano, ed utilizzano descrizioni linguistiche per
riferirsi ad esso; inoltre essi costruiscono modelli mentali non solo del mondo
oggettivo ma anche di altri modelli cioè delle altre menti. Grazie a queste
considerazioni ci accorgiamo quanto sia importante, per la costruzione di una
mente l’interazione con altri individui della stessa specie. In altre parole,
perché ci sia il pensiero al suo massimo grado è necessario che ci sia un
modello della mente altrui (Legrenzi 2000), tesi che è largamente condivisibile.
I problemi della sua argomentazione cominciano, a mio parere, quando egli
discute le tesi di Parisi; in particolare, quando discute l’affermazione secondo
cui è opportuno integrare le analisi sperimentali delle funzioni mentali con le
basi neurofisiologiche. Legrenzi sostiene che sebbene tale affermazione è
condivisibile sul piano dell’auspicio, tuttavia, vi sono molti ambiti in cui
l’augurata integrazione è difficile. Tali ambiti sono la costruzione di modelli
di menti altrui, il fenomeno del comico e le psicopatologie. Un altro problema
che Legrenzi individua nell’argomentazione di Parisi è la tesi per cui una
visione raziomorfica della mente non è adatta per studiare la mente nella sua
globalità. A mio parere, però, Legrenzi interpreta l’affermazione di Parisi in
maniera piuttosto fuorviante. Parisi non vuole sottolineare che gli aspetti
emotivi della mente sono spesso trascurati o che il pensiero è fatto anche di
forme irrazionali. Piuttosto, egli intende sottolineare che si studia la mente
improntando metodi e strumenti concettuali propri di un solo aspetto di essa
(quello razionale) e che con tali mezzi si tenta di studiare anche aspetti della
mente che non sono di fatto razionali, cercando anche, qualora ce ne si
interessi, di applicarli ai fenomeni cerebrali. Il programma di naturalizzazione
non vuole affatto negare che la mente lavori con simboli. Piuttosto, vuole
sostenere che tali simboli possono essere compresi e spiegati in termini di
emergenza da piani micro. D’altro canto, il fatto che ci siano aspetti della
mente che sono particolarmente difficili da comprendere se si sceglie
l’approccio integrativo tipico del programma di naturalizzazione, non mi pare di
per sé una buona ragione per continuare ad usare i vecchi programmi.
Su Marconi: esiste la mente?
L’esordio di Marconi (2000) è piuttosto “originale”. Egli dice di non essere
sicuro che esista qualcosa che si chiama “mente”, e che ciò è dovuto al fatto
che ci sono alcune questioni irrisolte al riguardo. Una di esse è quella per cui
riconoscere esistenza alla mente significa presupporre che
Una serie di fenomeni e comportamenti (percezione, linguaggio, ragionamento,
sensazioni, emozioni e chi più ne ha più ne metta) siano integrati tra di loro,
che ci sia uno e un solo sistema responsabile di tutto ciò , e che questo
sistema abbia la natura di soggetto.
Penso che sia sempre utile porre in dubbio gli assunti (le premesse tacite)
della ricerca ……..purché tale messa in dubbio abbia un qualche valore euristico.
Nell’articolo di Marconi non vi è, però, alcun approfondimento della sua
posizione che me ne faccia comprendere il suo valore intrinseco. Piuttosto,
l’assunto che i fenomeni elencati da Marconi siano integrati è di grande valore
euristico, se non altro perché sta alla base della stragrande maggioranza delle
ricerche sulle facoltà mentali finora svolte ed ha prodotto una grandissima
quantità di scienza e filosofia . C’è, inoltre, una ragione piuttosto
significativa che indurrebbe a mantenere la posizione dell’unità delle facoltà
mentali. Essa consiste nel fatto che si ritiene da tutti i ricercatori che le
facoltà mentali naturali (o umane, se vogliamo essere più prudenti) non possono
sussistere senza una porzione di cervello che le supporti. Ora, essendo una
porzione di cervello, per l’appunto, una parte di un sistema integrato (cioè
l’intero cervello), ed essendo che c’è una corrispondenza di qualche tipo tra
cervello e mente, mi pare che la deduzione più corretta sia quella che vuole le
facoltà mentali come parti di un sistema integrato. Si aggiunga che, nelle
correnti ricerche di scienze cognitive e filosofia della mente, quello che viene
messo in discussione a proposito della natura di soggetto di tale sistema, non è
tanto la tesi dell’essere soggetto in sé a costituire problema. Piuttosto oggi
si discute sulla qualità dell’unità soggettiva cioè se essa sia statica o
dinamica, se ad essa si debba attribuire la proprietà dell’identità e se tale
identità sia continua o discontinua . Mi pare allora che la posizione più
ragionevole attualmente sia quella della tesi dell’integrazione delle facoltà
mentali.
Molto più interessante è, invece, la considerazione sull’aspetto normativo che
il programma di naturalizzazione assume nella forma proposta da Parisi. Sono
pienamente d’accordo con Marconi quando dice che è difficile definire a priori
come si debba studiare la mente, se con questa affermazione intende dire che non
c’è un programma di ricerca che sia dispensatore di verità da contrapporre ad
altri programmi che, invece, non producono altro che falsità (o che, comunque,
questo non può essere deciso a priori). Tuttavia, mi pare che sia opportuno
considerare anche la necessità dell’impegno ontologico che un programma di
ricerca assume nel momento in cui intende costruirsi come paradigma scientifico,
ed i conseguenti impegni normativi che il programma di ricerca deve soddisfare
se vuole crescere. In altre parole, penso che affinché un programma scientifico
possa affermarsi sia necessario che esso stabilisca la natura dei suoi oggetti
di studio e il modo (le norme) in cui questi devono essere studiati. Sarà
compito della filosofia della scienza, poi, rivedere criticamente tali assunti
ontologici e i relativi sistemi normativi ( e qui Marconi ha, ancora una volta,
ragione). Ne consegue che i programmi di ricerca si valutano sulla base dei
risultati che producono. Ma ne consegue anche che è impossibile riconoscere
risultati se non si è preventivamente accettato che essi possono prodursi, cioè
se non si è data almeno l’opportunità che qualche entità esista e che ci sia
qualche modo privilegiato per studiarla (qualche norma). Ne consegue inoltre
che, come dice Marconi, non è compito dei filosofi assumere impegni ontologici e
sistemi normativi. Semmai questo è compito degli scienziati, ed ai filosofi
spetta il compito dialettico di discutere criticamente gli assunti degli
scienziati, anche se una divisione così netta dei compiti resta sul piano delle
idealità (però da perseguire!) visto che le ricerche non rispettano più le
tradizionali distinzioni tra scienza e filosofia e, aggiungerei, tra le varie
discipline scientifiche.
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