Interviste
Francisco Varela
La coscienza nelle neuroscienze
7/1/2001
L'argomento della nostra conversazione sarà la coscienza nelle neuroscienze. Ci
può delineare la situazione del dibattito odierno su questo tema? (1)
Ci può dire quali sono le ipotesi dominanti sul tema della coscienza oggi. (2)
Quali tecnologie hanno permesso i cambiamenti nella sperimentazione avvenuti
recentemente. Quali nuove tecniche, in particolare, li hanno resi possibili? (3)
Qual è la sua posizione personale - che immagino antiriduzionista - in questo
dibattito? (4)
Lei parla di emergenza. Ci può spiegare meglio come funziona questo concetto
nelle neuroscienze? (5)
Accetta di definirsi olista? (6)
Tuttavia è abbastanza diffusa l'idea che il compito essenziale della scienza, di
qualsiasi scienza, è di fare previsioni, di prevedere i fenomeni. Lei è
d'accordo? Lei pensa che il suo approccio, che si basa sulla nozione di
emergenza e su altri concetti non riduzionisti, può realmente aumentare la
capacità o la forza predittiva delle neuroscienze? In caso contrario, questo
potrebbe costituire un'obiezione al suo approccio: si potrebbe sostenere che è
più verisimile, ma che forse non contiene in definitiva una capacità di
previsione più forte dell'approccio riduzionista. (7)
Ma si può veramente costruire un vivente, - dato che un robot non è un vivente -
si possono ricostruire realmente degli organismi viventi a partire
dall'inorganico? (8)
Il costruttivismo è dunque una conferma del determinismo più stretto, o al
contrario fa posto, come mi sembrava di aver capito all'inizio del suo discorso,
a una specie di indeterminismo evenemenziale? (9)
Lei ha detto di essere stato influenzato filosoficamente dalla fenomenologia, ed
ha accennato ad una specie di va e vieni tra fenomenologia e neuroscienze. Ci
può spiegare meglio la sua storia intellettuale? (10)
Bisogna ricordare che Husserl ha scritto anche La crisi delle scienze europee.
Lei pensa che le scienze europee possono superare la crisi denunciata da Husserl.
Lei pensa che il progetto delle neuroscienze cognitive sia più forte? (11)
Allora Lei crede che c'è una rinascita della fenomenologia anche nelle scienze?
In quale dominio scientifico si verifica, secondo Lei, questa rinascita o è in
qualche modo disseminata? (12)
Conversazione con Sergio Benvenuto
1. L'argomento della nostra conversazione sarà la coscienza nelle neuroscienze.
Ci può delineare la situazione del dibattito odierno su questo tema?
Vorrei cominciare con una breve retrospettiva storica, che secondo me è
importante per capire quello che sta succedendo. Lo studio della coscienza come
oggetto di scienza è collegato evidentemente con le neuroscienze cognitive, come
si dice oggi. È un tema che come una malattia nevrotica è stato rimosso, è
ritornato, è stato rimosso una seconda volta e adesso ritorna di nuovo. Ci sono
periodi in cui viene messo completamente da parte e altri in cui suscita una
vera e propria infatuazione. All'inizio del secolo è stato appunto una passione
in Europa e in America, soprattutto in Germania, ma anche in America con William
James, considerato che la psicologia, che a quel tempo era l'equivalente delle
neuroscienze, era interessata essenzialmente al problema della coscienza. Ma era
anche in voga quello che si chiama oggi metodo in prima persona, l'accesso
fenomenologico, diretto, introspettivo ai contenuti della mia propria
esperienza. Si può osservare che tra il 1890 e il 1930-1940 circa, l'interesse
per lo studio scientifico della coscienza per ragioni diverse, che non avremo il
tempo di sviluppare oggi, ha subito un'eclisse e mentre dopo la Seconda Guerra
Mondiale la scienza europea è rimasta bloccata, per riprendere negli Stati
Uniti, negli Stati Uniti si è avuto il ciclo inverso della rimozione totale del
tema, ed è cominciato il periodo del comportamentismo, il periodo skinneriano,
il periodo in cui solo oggetto di scienza era il comportamento. Il
comportamentismo - per il quale lo studio scientifico della mente poteva
prendere come oggetto solo la manifestazione esterna del comportamento, del
movimento, la percezione, l'intensità della percezione ecc. - ha segnato
un'epoca, ha dominato per un lungo periodo la psicologia certamente, ma anche lo
studio dei sistemi neuronali. Per un lungo periodo di tempo - dunque non è stato
un fatto episodico - il comportamentismo ha costituito una specie di dogma, che
ha dominato gli ambienti scientifici degli Stati Uniti ed ha avuto un influsso
anche in Europa. È vero che ci sono sempre delle eccezioni nella storia, ma
adesso sto parlando delle tendenze dominanti. Quello che ci interessa sapere è
che negli anni Sessanta, e all'inizio dei Settanta, comincia quella che si
chiama oggi retrospettivamente la rivoluzione cognitiva.
Che cos'è la rivoluzione cognitiva? La rivoluzione cognitiva consiste nel dire
che l'approccio puramente comportamentista non sembra sufficiente a rendere
conto di tutto quello che si osserva nella vita degli animali e degli uomini, e
bisogna fare l'ipotesi - l'ipotesi cognitivista, appunto - che da qualche parte
ci siano strutture interne, contenuti propri alla vita della mente, processi
mentali non riducibili a meri comportamenti, come la memoria, la pianificazione,
l'associazione, e via di seguito. Così è cominciato negli anni Settanta con
grande successo e un rapido sviluppo il ritorno ai contenuti della mente
attraverso la nozione di "cognizione". Dal termine "cognizione", che è diventato
centrale a quel tempo - stiamo parlando degli anni Settanta - ed è ancora oggi
molto molto importante, prendono nome le scienze cognitive, in cui elementi
provenienti dalla psicologia, dalla linguistica, e beninteso dalle neuroscienze,
concorrono alla creazione di una disciplina che si sforza di studiare i
contenuti cognitivi in quanto tali. Anche qui ci sono molte scuole, molte
differenze, tendenze diverse: per esempio c'è un approccio che considera la
cognizione come un sistema computazionale, come dei moduli computazionali; poi
c'è un approccio più dinamico che si chiama connessionismo. Non intendo parlare
di tutto questo. Resta comunque il fatto che quando ho cominciato a lavorare
come ricercatore negli anni Settanta, quando ero attivo come ricercatore, era
permesso, anzi era al centro dell'interesse lo studio della cognizione, mentre
era vietato - dico bene: vietato -, scorretto, in un certo senso, parlare di
coscienza. La coscienza restava come qualcosa di mistico, di pertinenza dei
filosofi, più che un tema scientifico. È stato necessario attendere l'inizio
degli anni Novanta, perché ancora una volta, in questo ciclo maniaco-depressivo
della storia della scienza, tutt'a un tratto, per l'intervento di una serie di
fattori che si potrebbero eventualmente analizzare, si facesse strada finalmente
l'idea che si potevano apprendere molte cose sulla cognizione: come nasce
un'idea di movimento, come si costruisce un ricordo, come funziona l'emozione e
così via, tutti i moduli in cui si articola la vita cognitiva di un animale o di
un essere umano. E finalmente fa la sua comparsa qualcosa che mancava ancora e
che sta in relazione di prossimità assoluta con la vita dell'uomo: la coscienza,
il vissuto. È nata allora quasi improvvisamente una nuova ondata di quella che
si chiama oggi scienza della coscienza. E tutt'a un tratto è diventato
accettabile, anzi auspicabile, parlare di coscienza e chiedersi qual è
l'apparato cognitivo che rende possibile l'esistenza di un vissuto, l'esistenza
di un mondo fenomenico [phénoménal]. Beninteso si parla sempre di animali -
certi direbbero che [la coscienza] si trova soltanto nell'uomo, altri direbbero
che è presente anche nei primati superiori. Ma, in tutti i casi, sotto
determinate condizioni, l'apparato cognitivo, di cui sappiamo ormai parecchie
cose, rende possibile l'apparizione di questo fenomeno unico nell'universo che è
avere un vissuto, o per usare l'espressione del filosofo americano Thomas Nagel,
autore di un famoso articolo: "Che effetto fa essere un pipistrello" (1974),
potersi porre la domanda "che cosa significa essere qualcuno?" e, per
implicazione, "che cosa vuol dire avere un'esperienza?". Da questo momento
comincia il gran boom della coscienza e nel boom della coscienza c'è una
fashion, una fascinazione del mistero, per quello che è considerato lo zoccolo
duro nello studio della coscienza, che non consiste nello spiegare un fenomeno o
una capacità o un'abilità cognitiva qualsiasi, considerata difficile, ma
essenzialmente a portata di mano per la ricerca scientifica. Il problema duro è:
che cosa ci permette di dire che c'è un'emergenza della coscienza? Che cos'è la
coscienza? Si vede bene che questo problema apre tutta una serie di discussioni
filosofiche estremamente agitate, a volte addirittura violente. Si organizzano
dei convegni. Per esempio il mese di aprile sono stato invitato a un grande
congresso che costituisce un momento di incontro, biennale, su questi problemi,
all'Università di Tucson in Arizona, sul tema "Verso una scienza della
coscienza", a cui hanno partecipato centomila persone e si sono confrontate
tutte le opzioni filosofiche in un dibattito veramente assai largo.
Ma adesso vorrei passare a un altro capitolo.
2. Ci può dire quali sono le ipotesi dominanti sul tema della coscienza oggi.
Anche se il panorama è assai vasto, si possono individuare certe preferenze. Non
è difficile immaginare le ipotesi dominanti, perché negli scienziati, nei
ricercatori continua a prevalere uno spirito, una tendenza un po' riduzionista -
non lo dico in senso peggiorativo -, nel tentativo di ricondurre il problema
della coscienza a una spiegazione puramente materialista. Questo è il programma
delle neuroscienze, anzi delle neuroscienze cognitive. Parlo di neuroscienze
cognitive perché non si tratta soltanto dello studio del cervello, come nelle
neuroscienze, ma dei nuovi metodi di mappatura [imagerie] cerebrale. I nuovi
metodi per studiare il cervello in diretta nell'uomo, in maniera non invasiva,
permettono di porre questioni cognitive senza toccare la persona e al tempo
stesso di avere accesso ai correlati neuronali. Dunque per la prima volta si può
mettere un uomo sulla macchina IRM funzionale, dirgli: chiudi gli occhi e
immagina il tuo cane che che passa per strada e simultaneamente registrare
l'attività [cerebrale], vedere che risultato dà, e poi confrontarlo con il
risultato che si ottiene mostrandogli la fotografia del cane per vedere che
differenza c'è tra l'immaginare e il percepire. Tali questioni, che fino a
qualche anno fa non potevano né meno essere poste, in quanto riguardano
l'immaginazione e la vita mentale, sono assai vicine all'esperienza vissuta.
3. Quali tecnologie hanno permesso i cambiamenti nella sperimentazione avvenuti
recentemente. Quali nuove tecniche, in particolare, li hanno resi possibili?
Quando ci si riferisce a queste tecniche, in generale si pensa a dei metodi di
mappatura [imagerie] cerebrale, capaci di prendere il cervello come un tutto e
di usare diversi tipi di segnali, che permettono di ricostruire l'immagine di
quello che avviene all'interno del cervello, senza toccare la persona. Ce ne
sono essenzialmente tre. La prima, la più nuova è la risonanza magnetica, la IRM
[imagerie par résonance magnétique], e in particolare la IRM funzionale, che ci
mette in grado di misurare i cambiamenti nell'alimentazione emodinamica delle
diverse parti del cervello, che si accendono nella realizzazione di un compito.
Si ottengono così le immagini che il pubblico ha già potuto vedere: un cervello
con piccole macchie di colore, come un albero di Natale, che corrispondono per
esempio all'atto di alzare un braccio o di avere un ricordo. Queste immagini
erano impensabili fino a qualche anno fa. Secondo metodo: abbiamo immagini un
po' più pesanti, immagini ottenute con un'emissione di positroni, iniettando una
sostanza che libera particelle radioattive. È come uno scanner, di quelli che si
usano per le analisi cliniche, che serve a ricostruire l'emissione delle
particelle e a restituire un'immagine dell'attività del cervello. E infine, last
but not least, lo studio delle attività di superficie del cervello dispone oggi
di apparecchi per fare magnetoencefalogrammi, che permettono di misurare i
minuscoli campi magnetici che si trovano alla superficie della testa. Questi
campi magnetici, estremamente precisi, mediante un trattamento matematico dei
dati, forniscono un'immagine dinamica dei processi cerebrali, che possono essere
osservati da un'angolatura nuova. La combinazione di questi tre sistemi, la
magnetoencefalografia, il PET [Positron Émission Tomographie] e l'IRM [Imagerie
par Résonance Magnétique], Mappatura di Risonanza Magnetica, è l'insieme delle
tecniche che rendono possibile la nuova mappatura [imagerie] cerebrale.
Evidentemente si continuano a praticare le tecniche in uso già da lungo tempo,
come la registrazione delle cellule per cui si inseriscono degli elettrodi
all'interno del cranio. Questa è la neuroscienza classica, che si avvale della
neurochimica e della neuroanatomia. Le nuove tecniche invece appartengono alle
neuroscienze cognitive, perché permettono appunto di porre questioni
propriamente cognitive su un substrato neurologico o, più precisamente,
neuronale estremamente concreto. La distanza tra coloro che lavoravano sul
versante della psicologia e coloro che lavoravano sul versante delle
neuroscienze è molto diminuita, è divenuta pressoché inesistente: si lavora
contemporaneamente sui due versanti. È questo uno dei motivi per cui si assiste
alla rinascita degli studi sulla coscienza, ed è anche la ragione per cui le
neuroscienze hanno un ruolo centrale nei dibattiti sulla coscienza. Le persone
più influenti, le voci più ascoltate sono proprio quelle come la mia e di molti
altri che facciamo ricerche di laboratorio, operando sulla base delle
neuroscienze cognitive, che sembrano fornire gli argomenti più diretti per
legare l'esperienza e la coscienza al loro substrato biologico e cerebrale. Il
problema è che la maggior parte dei miei colleghi scienziati, come dicevo poco
fa, propendono per il programma riduzionista, e sono mossi dal desiderio di
trovare la coscienza da qualche parte, di trovare i circuiti o il luogo della
coscienza o, per usare la parola-chiave, i correlati neuronali della coscienza -
in inglese the neuronal correlates of consciousness, per cui viene
universalmente usata l'abbreviazione NCC - sempre in base alla speranza che i
correlati neuronali della coscienza siano a portata di mano e che, magari con un
duro lavoro, sia possibile trovarli. Per esempio uno scienziato del più alto
livello, come Sir Francis Crick, premio Nobel, scopritore con Watson della
struttura del DNA, che ha dedicato una vita allo studio del cervello, è convinto
di aver identificato i circuiti responsabili dei fenomeni di coscienza, e ha
scritto un libro intitolato L'ipotesi misteriosa, in cui si dice tra l'altro:
abbiamo scoperto che noi, con la nostra vita, la nostra esperienza, non siamo
che a bunch of neurones, un fascio di neuroni. Ecco un pensiero decisamente
riduzionista. Non sto facendo una caricatura, riprendo le parole e le scelte di
uno scienziato di grande statura, non di un tizio qualsiasi che non ha dato
nessun contributo alla scienza. Dunque la nozione di un correlato neuronale
della coscienza è veramente la posta in gioco essenziale. In che cosa consistono
i correlati neuronali della coscienza? Sono stati trovati, o li dobbiamo ancora
trovare? È possibile o impossibile? Questo è il dibattito fondamentale.
4. Qual è la sua posizione personale - che immagino antiriduzionista - in questo
dibattito?
C'è una tendenza, un vettore riduzionista, in cui la nozione di NCC occupa
veramente la maggior parte dei dibattiti e delle discussioni. Ma alcuni di noi -
parlo a titolo personale, ma evidentemente non sono solo, anche se siamo sempre
un po' in minoranza - pensano che la questione posta in questi termini non ha
soluzione, per la semplice ragione che il vissuto in quanto tale è per principio
logicamente ed empiricamente irriducibile a una funzione neuronale. È quello che
si chiama il problema duro della coscienza. Ciò che appartiene al vissuto ha uno
statuto o una natura che non è spiegabile in termini di sistema neuronale. Se ne
può trovare un correlato, ma questo correlato non cambia assolutamente il fatto
che il lato fenomenico [phénoménal] resta quello che è, un'apparizione
fenomenica [phénoménal], un accesso fenomenico [phénoménal] alla mia coscienza.
Dunque bisogna mettere la discussione in termini diversi, tenendo presente il
fatto che il dibattito sulla coscienza è cominciato e si è sviluppato per la
maggior parte negli Stati Uniti, dove la filosofia della scienza dominante che
si chiamaphilosophy of mind, è una filosofia di tipo analitico, che si interessa
essenzialmente a dare buone definizioni delle categorie e degli oggetti, mentre
il mio background filosofico è piuttosto quello della tradizione fenomenologica.
Nella tradizione fenomenologica il punto di partenza è la natura del vissuto e
la spiegazione materiale del mondo, la spiegazione delle relazioni tra
l'elemento fenomenico[le phénoménal] e il mondo. Non si tratta in alcun modo di
un tentativo di riduzione o di un tentativo di dissolvere l'elemento fenomenico
[le phénoménal] nell'empirico, perché sarebbe un'impresa destinata a fallire.
Qual è l'alternativa? L'alternativa è in un certo senso evidente - non direi
banale, ma evidente - solo che vi si rifletta adeguatamente. Perché? Perché
quando dico che la coscienza è il vissuto, non parlo di qualcosa che esiste solo
nella mia testa. Non posso mettermi alla ricerca della coscienza a partire da un
tratto di circuito cerebrale. La coscienza non appartiene, per così dire, a un
gruppo di neuroni, appartiene a un organismo, appartiene a un essere umano, a
un'azione che si sta vivendo. Non è proprio la stessa cosa. Che cosa vuol dire
precisamente? Vuol dire che non si può avere una nozione della coscienza e della
maniera in cui emerge, se non si prende in considerazione il fatto che il
fenomeno della coscienza appare in un organismo ed è legato ad almeno tre cicli
permanenti di attività. In primo luogo è connesso in permanenza con l'organismo.
Si dimentica troppo facilmente che il cervello non è un fascio di neuroni
sezionati in laboratorio, ma esiste all'interno di un organismo impegnato
essenzialmente nella propria autoregolazione, nella nutrizione e nella
conservazione di sé, che ha fame e sete, che ha bisogno di rapporti sociali.
Alla base di tutto ciò che pertiene all'integrità degli organismi, c'è infine il
sentimento dell'esistenza, il sentimento di esserci, di avere un corpo dotato di
una certa integrità, appunto. Per un aspetto essenziale la coscienza rientra
nell'attività permanente della vitalità organismica che, muovendosi sullo sfondo
del sentimento di esistere, è continuamente permeata, attraversata, da emozioni,
sentimenti, bisogni, desideri. In secondo luogo è evidentemente in collegamento
[couplage] diretto col mondo, o in interazione col mondo, attraverso tutta la
superficie sensorio-motrice. Io ho coscienza del bicchiere, nel senso che,
quando vedo il bicchiere, dico: ho coscienza di questo bicchiere. Ma il
bicchiere non è un'immagine nella mia testa, di cui io debba prendere coscienza
dall'interno, Si è scoperto che il bicchiere - questa è buona neuroscienza - è
inseparabile dall'atto di manipolarlo.L'azione e la percezione costituiscono
un'unità e il mondo non esiste, se non in questo ciclo, in questo collegamento [couplage]
permanente. Io amo dire che c'è un'interazione col mondo e che il mondo emerge
solo grazie a questo collegamento [couplage] che è una fonte permanente di
senso. È un'evidenza veramente massiccia, che si è costituita a partire dallo
studio dei bambini, dalla neurofisiologia della corteccia motoria e sensoriale,
e via di seguito. Ne potremmo parlare per diverse ore. Quando parlo di contenuti
di coscienza, e dico di vedere un bicchiere, il volto di un amico, il cielo, non
parlo di un tratto di circuito [circuiterie] neuronale che capta un'informazione
dal mondo e ne fa un correlato della coscienza, sto parlando di qualcosa che è
necssariamente decentrato [excentré], che non è nel cervello, ma nel ciclo, tra
l'esterno e l'interno, non esiste che nell'azione e nel ciclo, nello stesso modo
in cui il sentimento d'esistenza vive nel ciclo tra l'apparato neuronale e il
corpo. Ma c'è ancora una terza dimensione, valida soprattutto per l'uomo - ma
anche per i primati superiori - il fatto di essere strutturalmente concepiti per
avere rapporti con i nostri congeneri, con individui della stessa specie,
l'abilità innata, di un'importanza assolutamente centrale, che costituisce
l'empatia, di mettersi al posto dell'altro, di identificarsi con l'altro. Il
rapporto tra madre e bambino non è che una faccenda di empatia. Non soltanto
nell'infanzia, ma per tutto il resto dell'esistenza, la vita, la vita mentale,
la vita della coscienza, la vita del linguaggio o la vita mediata dal
linguaggio, l'intero ciclo dell'interazione empatica socialmente mediato, io non
posso separarlo da ciò che chiamo coscienza. Dunque ancora una volta non è
all'interno della mia testa che tutto questo si svolge, ma in modo decentrato [excentré],
nel ciclo. Il problema del neuronal correlate of consciousness è mal posto,
perché la coscienza non è nella testa. Per esprimersi concisamente, la coscienza
è un'emergenza che richiede l'esistenza di questi tre fenomeni, di questi tre
cicli: con il corpo, con il mondo e con gli altri. I fenomeni di coscienza
possono esistere solo nel ciclo, nel decentramento che esso comporta. Qual è in
tutto questo il ruolo del cervello? Evidentemente il cervello ha un ruolo
centrale, perché - la cosa si può dire molto bene in inglese, con una
espressione difficile da tradurre - è the enabling condition, la condizione di
possibilità.
Ripeto ancora una volta che la coscienza non è un segmento di circuiti
cerebrali, ma appartiene a un organismo incessantemente coinvolto nei differenti
cicli e che quindi è un fenomeno eminentemente distribuito, che non risiede solo
nella testa. Il cervello da parte sua è essenziale perché contiene le condizioni
di possibilità perché questo avvenga. È meraviglioso. La meraviglia del cervello
è che permette per esempio il coordinamento sensorio-motore di tutta
l'interazione, la regolazione ormonale che assicura il mantenimento
dell'integrità corporea, e così via. Ma la nozione di neuronal correlates of
consciousness in quanto tale è, per usare le parole di Alfred Norton Whitehead,
"una concretizzazione inopportuna". Non si può fare questa mossa senza escludere
simultaneamente molti fatti importanti. Dunque la mia è una posizione
antiriduzionista, ma al tempo stesso una posizione assai meglio fondata.
Questo riguarda la nozione di ciclo, ma come la coscienza emerga dal ciclo è una
nozione assai fluida.
5. Lei parla di emergenza. Ci può spiegare meglio come funziona questo concetto
nelle neuroscienze?
Sì, certo. In effetti la nozione di emergenza in tutto quello che ho detto e in
tutto quello che penso riguardo a queste cose - né sono solo a pensarlo - è una
nozione assolutamente centrale, in mancanza della quale si continua a restare,
come accade nella maggior parte dei casi, in una visione dualista del genere
body/mind, e non si arriverà mai a comprendere come un'attività di tipo sia
cognitivo, sia cosciente possa essere collegata a una base materiale, senza
essere ridotta a un'influenza materiale, come sia possibile un approccio non
riduzionista alle basi materiali [della coscienza]. Come dev'essere intesa al
nozione di emergenza? Ancora una volta bisogna gettare uno sguardo sulla storia,
perché si tratta di una nozione che proviene dalla fisica, che, dall'inizio del
secolo, si è sviluppata assieme alla fisica. Proviene dall'osservazione delle
transizioni di fase o transizioni di stato o per dirlo più chiaramente di come
si passa da un livello locale a un livello globale. Faccio un esempio banale.
Sono in circolazione [nell'atmosfera] innumerevoli particelle d'aria e d'acqua e
tutt'a un tratto per un fenomeno di autoorganizzazione - questa è la parola
chiave - diventano un tornado, un oggetto che apparentemente non esiste, non ha
vera esistenza, perché esiste soltanto nelle relazioni delle sue componenti
molecolari. Nondimeno la sua esistenza è comprovata dal fatto che distrugge
tutto quello che incontra sul suo passaggio. Dunque è un curioso oggetto. La
nozione di emergenza ha avuto molti sviluppi teorici e in biologia si trova che
i fenomeni di emergenza sono assolutamente fondamentali. Perché? Perché ci
permettono di passare da un livello più basso a un livello più alto,
all'emergenza di un nuovo livello ontologico. Quello che era un ammasso di
cellule improvvisamente diventa un organismo, quello che era un insieme di
individui può diventare un gruppo sociale, quello che era un insieme di molecole
può diventare una cellula. Dunque la nozione di emergenza è essenzialmente la
nozione che ci sono in natura tutta una serie di processi, retti da regole
locali, con piccole interazioni locali, che messi in condizioni appropriate,
danno origine a un nuovo livello a cui bisogna riconoscere una specifica
identità. Qui la parola identità è importante. Quando si parla di una certa
identità cognitiva, si pensa per esempio al fatto di un cane che si sposta, che
decide se andare a destra o a sinistra, che ha un certo temperamento o un certo
comportamento, una vita individuale. Si può dire benissimo che questa è la vita
mentale, la vita cognitiva del cane: preferisce, sceglie, si ricorda ecc. ecc.
Dove ha origine tutto questo? Nella visione delle neuroscienze l'origine è in
quella serie di interazioni, dunque nelle sue percezioni-azioni, nel
collegamento [couplage] con il mondo, che fa emergere il livello transitorio di
un aggregato, da una specie di assemblaggio di tutti i moduli particolari che
sono la percezione in quanto tale, l'azione in quanto tale, ecc. ecc. mettendoli
insieme in una unità coordinata che sarebbe la vita cognitiva del cane. Qui c'è
un salto. Per noi è lo stesso. La nostra identità in quanto individui è di una
natura del tutto peculiare. Da un lato si può dire che esiste. Mi dicono:
Buongiorno, Francesco, ed io sono capace di rispondere, di avere delle relazioni
con gli altri. Dunque c'è una specie di interfaccia, di collegamento [couplage]
col mondo, che dà l'impressione di un certo livello di identità e di esistenza.
Ma al tempo stesso questo processo è di natura tale che appunto, come in tutti i
processi emergenti, io non posso localizzare questa identità, non posso dire che
si trovi qui piuttosto che là, la sua esistenza non ha un locus, non ha una
collocazione spazio-temporale. È difficile capire che si tratta di una identità
puramente relazionale e così nasce la tendenza a cercare i correlati neuronali
della coscienza, per trovarli nel neurone 25 o nel circuito 27. Ma non è
possibile, perché si tratta di una identità relazionale, che esiste solo come
pattern relazionale, ma è priva di esistenza sostanziale e materiale. Il
pensiero che tutto quello che esiste deve avere esistenza sostanziale e
materiale è il modo di pensare più antico della tradizione occidentale ed è
molto difficile cambiarlo.
- Atomista, dunque?
Atomista se si vuole, ma soprattutto è un modo di vedere che si trova alla
radice della filosofia materialista. Il fisicalismo più diffuso pretende che la
sola esistenza è quella materiale. Ora il fatto interessante è che proprio in
ambito scientifico e non filosofico, prima nella scienza e solo in un secondo
tempo in filosofia, è stata scoperta la nozione di emergenza. Che si possano
dire oggi molte cose, che si possano impiantare anche delle equazioni su queste
transizioni da un livello all'altro, dal locale al globale, per cui de facto la
vita è qualcosa di troppo, una maniera d'essere nella natura che non è
sostanziale ma, per così dire, virtuale - efficace ma virtuale - è una
rivoluzione scientifica della più grande importanza.
6. Accetta in questo caso di definirsi olista?
Il termine olista è superato, a mio avviso, perché risale all'epoca in cui c'è
stato lo scontro tra l'idea che si potesse realizzare un programma riduzionista
forte e una nozione filosoficamente motivata dall'esigenza di reagire contro
quel programma. Qui non si tratta di olismo, ma di buona scienza. Si tratta di
osservare una gran quantità di processi naturali, lo sviluppo e il funzionamento
del cervello, l'organizzazione del sistema immunitario, l'organizzazione dei
sistemi ecologici, che non possono essere capiti se non si prende in
considerazione la dialettica tra i due livelli, che l'olismo non ha mai
veramente compreso. Dunque il termine olismo non è veramente appropriato. Quando
parlo di emergenza, parlo di qualcosa che è centrale nella ricerca scientifica
contemporanea, anche se molti non ne hanno ancora colto l'importanza. È un
problema assolutamente essenziale - e con questo chiudo questo piccolo a parte
epistemologico - perché ciò che c'è di geniale nella nozione di emergenza è che,
se da un lato un gruppo di neuroni in interazione con il mondo danno origine a
una attività cognitiva, dall'altro, come in tutti i processi di emergenza
naturale, una volta che ha avuto luogo l'emergenza di una nuova identità, quell'identità
ha degli effetti, ha delle ricadute [causalité descendente] sulle componenti
locali. Che cosa vuol dire? Vuol dire che il concetto di emergenza ci permette
per la prima volta di pensare la causalità mentale. Il mentale non è più un
epifenomeno, non è più una specie di fumo che esce dal cervello. Al contrario,
si può dimostrare scientificamente, logicamente e anche matematicamente che
l'esistenza, l'emergenza di uno stato mentale, di uno stato di coscienza, può
avere un'azione diretta sulle componenti locali, cambiare gli stati di emissione
di un neurotrasmettitore, cambiare gli stati di interazione sinaptica tra
neuroni e così via. Questo vuol dire che c'è un vero va-e-vieni tra ciò che
emerge e le basi che ne rendono possibile l'emergenza, che impone di fare una
descrizione completamente diversa del posto della coscienza e della cognizione
in generale - ma certamente della coscienza - nell'universo, non come livello
fluttuante, ma come parte intrinseca della natura, come parte intrinseca alla
dinamica del mondo naturale. È questo che mi piace e che ci fa avanzare rispetto
alla perenne ripetizione di un dualismo che non porta da nessuna parte, senza
dover ricorrere al riduzionismo, e senza che la coscienza perda il suo statuto
fenomenologico [phénoménal], il suo statuto proprio.
7. Tuttavia è abbastanza diffusa l'idea che il compito essenziale della scienza,
di qualsiasi scienza, è di fare previsioni, di prevedere i fenomeni. Lei è
d'accordo? Lei pensa che il suo approccio, che si basa sulla nozione di
emergenza e su altri concetti non riduzionisti, può realmente aumentare la
capacità o la forza predittiva delle neuroscienze? In caso contrario, questo
potrebbe costituire un'obiezione al suo approccio: si potrebbe sostenere che è
più verisimile, ma che forse non contiene in definitiva una capacità di
previsione più forte dell'approccio riduzionista.
È giusto porre questa domanda e spesso viene posta. Ècco come stanno le cose.
Quando dominava il paradigma delle scienze fisiche, veniva qualcuno in un
congresso a dire: ho una buona teoria per prevedere la traiettoria degli
elettroni. Gli veniva chiesto allora di fare una previsione, di prevedere la
traiettoria di un elettrone e mostrare di conoscerne esattamente la posizione
[in un dato momento]. Eccellente metodo fondato sull'anticipazione e la
previsione. La fisica, con Einstein e la teoria della relatività, lo ha
sfruttato in modo geniale. Ma attenzione! Sarebbe un riflesso puramente
fisicalista pensare che questo è il solo metodo con cui la scienza procede.
Perché? Perché appunto nel campo delle scienze della natura diverse dalla
fisica, per esempio nelle scienze del vivente, non è questo che ci interessa.
Poniamo che io dica: ho una perfetta comprensione di come questo cane cammina.
Che interesse ha prevedere in che istante muoverà la zampa destra, se
nell'istante t o t1. Sembra qualcosa di assolutamente banale. Qual è la prova
che ho ragione, che la mia teoria è buona? È il fatto che posso ricostruire un
cane capace di muoversi. Ci sono nella scienza due approcci: l'approccio
predittivo e quello che possiamo chiamare l'approccio costruttivo. Per avere
ragione dovete essere in grado di costruire un apparecchio capace di movimenti
come quelli del cane. È qualcosa di assai più convincente che anticipare il
movimento della zampa destra del cane. Questo è il punto: non bisogna
dimenticare che è questo il modo con cui procede oggi la scienza. Si procede
così nell'interfaccia tra le neuroscienze e [le teorie del]l'intelligenza
artificiale. L'intelligenza artificiale è in gran parte la prova costruttiva
delle teorie nate nel campo delle neuroscienze: per esempio, fare dei robots
capaci di orientarsi in un mondo. Gli scienziati che costruiscono questo tipo di
automi si ispirano alla biologia, ma la prova che la teoria è buona è che il
robot cammina. Non è interessante tanto prevedere il punto esatto in cui
effettuerà un certo movimento, quanto che la capacità qualitativa di compierlo
emerga e si manifesti. Dunque la prova mediante l'emergenza, la prova
dell'emergenza è la costruzione, non la previsione.
8. Ma si può veramente costruire un vivente, - dato che un robot non è un
vivente - si possono ricostruire realmente degli organismi viventi a partire
dall'inorganico?
Assolutamente sì. Ci siamo molto vicini, molto, molto vicini, precisamente
perché esistono teorie dell'emergenza della cellula. Ci sono in questo campo
risultati recenti assolutamente straordinari, come la produzione di cellule di
sintesi, diverse dalle cellule storiche perché impiegano componenti diverse. Per
la stessa ragione si può tentare di riprodurre tutto lo sviluppo di un animale
multicellulare, sulla base di cellule disaggregate. Se si ha una buona teoria
dell'emergenza, della forma di un embrione, la si può applicare. È sempre
esattamente lo stesso ragionamento e dunque in questo tipo di prova non c'è
assolutamente meno rigore che nel vecchio tipo di prova che è proprio della
fisica. Dunque si tratta veramente di cambiare campo.
9. Il costruttivismo è dunque una conferma del determinismo più stretto, o al
contrario fa posto, come mi sembrava di aver capito all'inizio del suo discorso,
a una specie di indeterminismo evenemenziale?
Tutto dipende da che cosa si intende con "determinismo". Se "determinismo" vuol
dire che si conoscono le leggi fondamentali dell'universo, che ci permettono di
comprendere come certi fenomeni - tra cui mettiamo la coscienza - emergano,
allora sì effettivamente da questo punto di vista si tratta di un approccio
determinista. Ma non è determinista nel senso laplaciano del termine, perché la
previsione non è interessante e né meno possibile. Sono fenomeni complessi: la
maggior parte dei fenomeni emergenti sono detti "non lineari", perché funzionano
appunto su basi che non permettono la previsione, sono di tipo caotico. In
questi casi la previsione in quanto tale non è interessante. Io non posso
calcolare quello che un dato individuo penserà in un istante successivo, perché
questo fa parte appunto della logica, della legge di emergenza del suo pensiero.
10. Lei ha detto di essere stato influenzato filosoficamente dalla
fenomenologia, ed ha accennato ad una specie di va e vieni tra fenomenologia e
neuroscienze. Ci può spiegare meglio la sua storia intellettuale?
Sì. Evidentemente quando ci si interessa, come mi sono interessato io, a questo
genere di problemi, concernenti la cognizione e la coscienza, si è sempre
sostenuti anche da un interesse filosofico. Assai presto ho subito una marcata
influenza della filosofia continentale e in grande misura proprio della
fenomenologia...
- ... per questo ha scelto di lavorare in Francia, piuttosto che negli Stati
Uniti o in Inghilterra?
Ci stavo arrivando. Dopo mi sono recato negli Stati Uniti per completare la mia
formazione e lavorando parecchi anni in quel paese mi sono reso conto che
l'orientamento continentale o, se si preferisce, europeo, che avevo appreso
nella mia giovinezza, non era l'unico. Ho dovuto iniziarmi a un approccio
completamente diverso alla filosofia, che gli americani chiamano philosophy of
mind, filosofia della mente, una filosofia di tipo francamente analitico,
improntata a uno spirito del tutto diverso, in antagonismo, in guerra con la
filosofia continentale. Ci è voluto del tempo perché mi abituassi a questo tipo
di pensiero e, man mano che il tempo passava, mi sono reso conto che quel tipo
di filosofia non mi si addiceva affatto, anche se a quel tempo era francamente
dominante nel campo delle scienze cognitive. I filosofi, i grandi filosofi, che
dominavano la scena, Daniel Dennett, John Searle, venivano dalla tradizione
della philosophy of mind, che a me non diceva molto, anche perché ormai avevo
deciso di lasciare gli Stati Uniti per venire in Europa. Una volta installato in
Europa, mi sono accorto che era effettivamente molto più interessante per me a
livello dei miei incontri, delle mie partnership, quella filosofia che non avevo
trovato negli Stati Uniti, dove lavoravo molto più solo. C'era infatti in quel
momento una vera rinascita della fenomenologia. La fenomenologia era stata
considerata per anni dal pubblico - non certo dagli studiosi, ma dal pubblico -
come una filosofia che consisteva soprattutto nel commento di testi
specialistici, di libri polverosi, che nessuno leggeva. Ma in realtà la
fenomenologia è soprattutto - a partire da Husserl, che ne è il fondatore - uno
stile di lavoro, una maniera di lavorare completamente aperta a nuovi dati, a
nuovi orientamenti. Bisogna sapere che c'è tutta una nuova generazione, che
prende la fenomenologia come uno strumento di lavoro, per lo studio di questioni
cognitive ...
- ... nella scienza?
... nella scienza, appunto. Perché? Perché serve, è di aiuto. Mi permetta di
fare un esempio. Si parlava prima della riconcettualizzazione della percezione,
degli oggetti del mondo. Fino a poco tempo fa si aveva un'idea
rappresentazionista della percezione. Là c'è il bicchiere e dentro di me ho
un'immagine. L'idea fondamentale che attualmente abbiamo di questa esperienza è
di una inseparabilità dell'atto e della percezione. Adesso si scopre, tra
l'altro che Husserl e Merleau-Ponty hanno esaminato a lungo questi argomenti e
hanno estesamente tematizzato l'inseparabilità di percezione e di azione. Se si
legge, per esempio, quello straordinario libro di Husserl che s'intitola Ding
und Raum, Cosa e spazio, dove descrive in tutti i particolari il modo in cui le
cinestesie del corpo vanno a costituire un oggetto, si vede l'incredibile
finezza d'osservazione, propria del fenomenologo, con cui mostra cose che oggi
vengono confrontate - e concordano perfettamente - con i risultati delle
neuroscienze. Lo stesso non si può dire dei filosofi analitici, che si sono
formati su un'analisi puramente esterna e non sono mai entrati in un confronto
diretto con i dati empirici. Ne consegue che c'è sempre più la tendenza a fare
della fenomenologia una fonte di riflessione, tanto più se ci si interessa alla
coscienza, che è per così dire lo zoccolo duro della fenomenologia, alla
descrizione delle strutture della coscienza, alla maniera in cui, con il metodo
della riduzione fenomenologica - che non ha niente a che vedere con il
riduzionismo fisicalistico -, con il metodo di osservazione e di analisi
fenomenologica, si può cogliere l'elemento centrale nelle strutture
dell'esperienza umana. Oggi nel boom della coscienza, delle scienze della
coscienza, c'è un ritorno molto forte al metodo "in prima persona", che un tempo
si chiamava introspettivo, metodo capace di prendere in considerazione i dati
del vissuto personale, per portare avanti un esperimento. È quello che si fa nei
laboratori. A chi ha questo tipo di interessi la fenomenologia viene incontro in
laboratorio come partner naturale della sua ricerca.
11. Bisogna ricordare che Husserl ha scritto anche La crisi delle scienze
europee. Lei pensa che le scienze europee possono superare la crisi denunciata
da Husserl. Lei pensa che il progetto delle neuroscienze cognitive sia più
forte?
Ascolti. Husserl è un pensatore multiforme e certe sue opere sono state
pubblicate solo recentemente. C'è ancora una grande quantità di inediti, e
secondo me, se si legge un libro come Analisi delle sintesi passive, che è stato
pubblicato nel 1966, si può evitare di prendere alla lettera il pessimismo dell'Husserl
che scrive La crisi. Io non sono - e lo stesso vale per la nuova generazione di
coloro che si interessano alla fenomenologia - un Husserl's scholar. Husserl è
un uomo che detto delle cose geniali, che fatto dei lavori geniali, ma ci sono
molte altre cose sue meno interessanti. Non importa. Quello che importa è il suo
stile, l'impulso che ha impresso alla ricerca, a cui altri contribuiscono.
Dunque non si può essere d'accordo o in disaccordo con tutto quello che ha
detto, perché ha detto tante di quelle cose che c'è spazio per l'uno e per
l'altro atteggiamento. Bisogna mettere da parte l'idea che i filosofi siano
monolitici. Secondo me filosofi come Husserl o Merleau-Ponty devono darci delle
ispirazioni per il nostro lavoro.
12. Allora Lei crede che c'è una rinascita della fenomenologia anche nelle
scienze? In quale dominio scientifico si verifica, secondo Lei, questa rinascita
o è in qualche modo disseminata?
Questo rinnovamento della fenomenologia, che si interfaccia con la scienza,
riguarda molti campi, ma in modo prioritario il campo delle scienze cognitive e
lo studio della coscienza.
- Da per tutto?
Sia negli Stati Uniti che in Europa. Sono stati pubblicati recentemente dei
libri, si sono tenuti convegni e seminari a Parigi, dunque c'è già una
letteratura abbastanza considerevole. La fenomenologia si interfaccia anche con
la matematica e la fisica matematica. È un fatto, in un certo senso,
comprensibile. Ma la sua penetrazione nell'universo delle scienze cognitive è
molto interessante, e sta cambiando i dati del dibattito. Adesso nei convegni
americani si sente dire: bisognerebbe invitare anche scienziati con un
background fenomenologico. Si comincia a capire che la filosofia della mente non
è l'unica opzione, e che la sua egemonia è stata scossa. È una cosa che fa
riflettere. I giovani sono sempre più interessati.
- Ci sono fenomenologi viventi a cui si sente vicino?
Sì, ce ne sono.
- Lei ha citato finora solo Husserl e Merleau-Ponty, che sono ...
... dei classici.
- Potrebbe citarne qualcuno di più recente, di più "cutting edge"?
Ce ne sono di molto noti come Eduard Marbach, in Svizzera, di formazione
husserliana, che si interessa molto all'interfaccia e che ha scritto su questo
tema un libro molto interessanteintitolato Mental representations. Su un'altra
linea, di un'altra scuola è l'americano Hubert Dreyfus, che ha avuto un grande
successo per le critiche che ha mosso, da un punto di vista fenomenologico, alle
scienze cognitive. Tra i giovani, c'è un tipo negli Stati Uniti che mi sembra
già molto importante. Si chiama Shaun Gallagher, studioso sulla trentina, con
una buona formazione come fenomenologo e al tempo stesso come filosofo
analitico, che conosce molto bene il campo della ricerca empirica ed è molto
attivo. Un giovane filosofo canadese con cui lavoro molto, Evan Thompson, ha
anche lui una doppia formazione, come fenomenologo e come filosofo analitico, ma
conosce anche i problemi della scienza. Infine c'è un giovane filosofo danese
molto competente, Dan Zahavi.
Torna all'Home Page
--------------------------------------------------------------------------------