Erickson l’uomo e la sua opera
tratto da: http://ipnosi.interfree.it/
Erickson nacque nel 1901 e crebbe in una fattoria del Middle West. L'infanzia fu
segnata da molteplici handicap. Fin dalla nascita era affetto da cecità
cromatica (daltonismo), dislessia e mancanza del ritmo, fu colpito due volte da
poliomelite. La prima volta all'età di diciasette anni fu molto grave: dopo
essere uscito dal coma rimase paralizzato. Fu curato in casa sua, nella
fattoria.
Milton scoprì da solo il fenomeno della focalizzazione ideodinamica indiretta:
"era seduto su una sedia a dondolo e sentiva un forte desiderio di guardare
dalla finestra. La sedia si mise a dondolare nonostante egli fosse completamente
paralizzato! [...] prese a utilizzare il suo metodo muscolo per muscolo,
articolazione per articolazione. L'osservazione della sorellina che imparava a
camminare gli servì da stimolo e da guida nella sua rieducazione." (Dominique
Megglé, Psicoterapie brevi, Red Edizioni, 1998 Como, p. 32)
Con il termine focalizzazione ideodinamica ci si riferisce a un semplice
fenomeno che fa sì che quando pensiamo a una certo comportamento lo agiamo
impercettibilmente a livello inconscio.
Se ne incominciò a parlare – alla fine del '800 – alla scuola di Nancy in questi
termini:
"Abbiamo stabilito che ogni suggestione tende a realizzarsi, che ogni idea tende
a farsi atto. Tradotto in termini fisiologici, questo vuol dire che ogni cellula
cerebrale azionata da un'idea aziona le fibre nervose che devono realizzare
questa idea. [...] Se dico a qualcuno: <<Lei ha una vespa sulla fronte>>, questo
qualcuno, che non avrà alcun motivo di credermi, sentirà più o meno
distintamente la presunta vespa, e porterà la mano alla fronte, esteriorizzando
lì il prurito creato dal sensorio azionato dall'idea della vespa. L'idea è
diventata sensazione"
(Hippolyte Bernheim, L'ipnotismo e la suggestione nei loro rapporti con la
medici legale, Doin, Paris 1897)
La moglie in una lettera a uno studente colpito da polio raccontò che "Imparò a
camminare con le stampelle e a tenersi in equilibrio sulla bicicletta;
finalmente ottenuta una canoa, alcune provviste indispensabili per un
equipaggiamento da campeggio e una manciata di dollari, progettò un viaggio per
un'intera estate, a partire dal lago vicino al campus dell'Università del
Wisconsin, per proseguire seguendo il corso del Mississipi, spingendosi a sud
oltre St. Louis, fino a ritornare indietro nello stesso modo. [...] Andò
incontro ad alcune avventure e, dopo aver affrontato molti problemi, imparando
però vari modi per affrontarli e incontrando molti personaggi interessanti,
alcuni dei quali gli furono di grande aiuto, completò il viaggio, ritornando in
condizioni di salute di gran lunga migliori, con muscoli delle spalle ben
sviluppati, pronto ad affrontare gli studi universitari di medicina." (Jeffrey
K. Zeig, Erickson. Un'introduzione all'uomo e alla sua opera, Astrolabio, Roma
1990, p. 21)
In seguito studiò medicina specializzandosi in psichiatria (ma fu
fondamentalmente autodidatta nell'ipnosi) e insegnò nel Michigan finché per
gravi disturbi allergici si dovette spostare a Phoenix in Arizona in cerca di un
clima più asciutto. Qui decise di dedicarsi alla professione privata: "Laggiù,
lontano dai conformismi universitari, ma con il solido sostegno del suo
background scientifico, poté finalmente fare quello che voleva, dando libero
sfogo alla sua creatività. Nel paese si incominciò a parlare di un modesto
psichiatra di Phoenix che riceveva pazienti a casa propria, li faceva attendere
in salotto in mezzo ai suoi otto figli, e otteneva risultati incredibili." (Id.
ibid., p. 33)
A quanto pare la voce arrivò fino a Palo Alto dove l'antropologo Gregory Bateson
stava conducendo delle ricerche sui 'paradossi dell'astrazione nella
comunicazione' (vedi doppio legame). Beteson mandò due suoi collaboratori – Jay
Haley e Richard Weakland – da Erickson. Jay Haley rimase affascinato da questo
ipnoterapista e scrisse "Terapie non comuni" che consacrò Erickson come un
maestro di terapia strategica.
Erikson si interessò in particolare ai metodi naturalistici (senza induzione
formale), che lo portò a utilizzare l'ipnosi in modo creativo non più cioè come
una serie di rituali standard ma come un particolare stile comunicativo e una
particolare "situazione comunicativa relazionale" (Jay Haley, Terapie non
comuni, Astrolabio, Roma 1976, p. 10). Milton era capace di indurre una trance a
partire da racconti, reminiscenze, episodi della sua vita o altre strane storie
e fatti inconsueti che apparentemente non avevano nulla a che fare con il
problema specifico del paziente. Il paziente stava lì, ascoltava – a volte
rapito a volte annoiato – questi strani monologhi, e poi veniva congedato senza
accorgersi che era entrato e uscito spontaneamente dalla trance più volte.
Scopo della sua ipnosi era quello di accedere al potenziale inconscio e alla
capacità naturale di apprendere del cliente, depotenziando al contempo i suoi
schemi limitanti. (Milton H. Erickson - Ernest L. Rossi, Ipnoterapia,
Astrolabio, Roma 1982, p. 10)
Erickson fu anche il socio fondatore dell'American Society of Clinical Hypnosis
e contribuì a adre dignità e scientificità all'ipnosi, collaborò inoltre con
Aldous Huxley nella sua ricerca intorno agli stati alterati di coscienza.
Dopo il secondo attacco di poliomelite rimase in carrozzina con le gambe e un
braccio paralizzati e morì a 78 anni il 27 marzo 1980, nel frattempo altri suoi
allievi ospitati a Phoenix (Haley, Rossi, Zeig) continueranno il suo
insegnamento.
Al funerale il commento finale di Pearson fu: "Erickson ha affrontato da solo
l'establishment psichiatrico, e l'ha sconfitto. Ma loro ancora non lo sanno..."
(Introduzione di Sidney Rosen a La mia voce ti accompagnerà. Racconti didattici
di Milton H. Erickson, Astrolabio, Roma 1983, pp. 11-12). Rosen precisa anche
che "in molte delle sue storie c'è qualcosa di tipicamente americano,
specialmente in quelle che riguardano la usa famiglia. È per questo che Erickson
è stato definito un eroe del folklore americano" (Id. ibid., p. 19)
L’approccio di Erickson deve molto alla sua personale esperienza e alla
riabilitazione che dovette intraprendere.
Trattò gli altri così come aveva trattato se stesso insegnando alla sua mente
inconscia a recuperare le risorse perdute e a utilizzare ogni cosa necessaria
per giungere al risultato volgendola nel suo positivo:
"La famiglia Erickson viaggiò dunque in treno e in carro fino ad arrivare nel
minuscolo villaggio di Aurum, nel Nevada. Il viaggio a Ovest fu difficile, pieno
di quei disagi tipici delle avventure dei pionieri: vi furono carenze di cibo e
d'acqua, rigide notti, forti tempeste di vento da sopportare, senza contare la
resistenza fisica richiesta per il lungo tragitto.
Una volta arrivata, la famiglia si stabilì in una capanna di tronchi dal
pavimento di terra, con tre sole pareti (la quarta era costituita da una
montagna! ) in una zona desolata della Sierra Nevada. Costantemente assillati da
penuria di viveri, i pionieri divennero bravissimi nel trasformare ciò che
avevano a disposizione in ciò di cui avevano bisogno. Ad Albert e Clara piaceva
raccontare di quando conservavano la gelatina nelle bottiglie di whisky - la
gelatina la si poteva tirare fuori con un coltello - perché i vasi a bocca
larga, che erano di meno, servivano per conservare altri cibi. Certamente
crescere in un ambiente di questo tipo deve aver contribuito a formare la base é
ciò che alla fine avrebbe caratterizzato gli approcci molto innovativi alla
terapia di Milton: l'utilizzare in modo creativo tutto ciò che è disponibile
nella persona al fine di ottenere cambiamento e guarigione."
Una convinzione fondamentale di Erickson fu che l'ipnosi - come aveva potuto
verificare - esiste in un gran numero di situazioni della vita quotidiana, non è
necessario quindi un rituale specifico, strano o complicato per indurla. Per
Erickson l'ipnosi era più che altro uno stile comunicativo che lo seguiva in
qualsisi approccio con il cliente. Da questa convinzione deriva l'approccio
naturalistico che lo ha reso famoso.
Inoltre Erickson era molto abile nella comunicazione multilivello proprio perché
conosceva i multipli significati di molte parole, infatti fino alla 3a
elementare era stato un grande lettore di dizionari:
"Dato che Erickson nacque e crebbe in una terra di frontiera e in campagna, poté
avvalersi di poche istituzioni sanitarie o educative. L ‘'istruzione' che si
impartiva era di tipo semplice, limitata all'essenziale, ed è forse per questo
che (a quanto sembra) nessuno si accorse che il giovane Milton percepiva il
mondo in un suo modo del tutto peculiare. Molti dei primi ricordi di Erickson
riguardano il modo in cui, per via di vari problemi di costituzione, le sue
percezioni erano diverse da quelle degli altri: per esempio, era daltonico
inoltre era affetto da sordità tonale e non poteva né riconoscere né eseguire i
ritmi tipici della musica e delle canzoni; era poi a che affetto - da dislessia
un problema che indubbiamente la sua mente di bambino non riusciva a capire e
che egli riconobbe e capì solo molti, molti anni dopo.
Le incomprensioni, le discrepanze e la confusione che derivavano da queste
differenze rispetto alla visione del mondo che era comune e normale negli altri
avrebbero potuto menomare il funzionamento mentale di un'altra persona. Nel
giovane Milton, invece, queste differenze crearono a quanto pare l'effetto
opposto: stimolarono la sua ricerca e la sua curiosità. Ma, cosa più importante,
esse portarono a una serie di esperienze inusuali che costituirono la base di
una ricerca, durata tutta una vita, sulla relatività delle percezioni umane e
sui problemi che ne derivavano, nonché sugli approcci terapeutici riguardanti
tali problemi.
"Quando aveva sei anni Erickson era un bambino che appariva handicappato dalla
dislessia. La sua maestra, per quanti sforzi facesse, non riusciva a convincerlo
che un '3 e una 'm' non erano la stessa cosa. Un giorno ella scrisse un 3 e poi
una m guidando con le proprie mani quelle del piccolo, ma Erickson non riusciva
ancora a coglierne la differenza. D'un tratto ebbe un'allucinazione visiva
spontanea in cui la percepì in un lampo di luce accecante.
E: Puoi capire come questo sia sconcertante? Poi un giorno, c'è stato qualcosa
di sbalorditivo: uno scoppio improvviso di luce atomica. Ho visto la m e il 3.
La m stava diritta sulle gambe e il 3 poggiato su un fianco con le gambe
protese. Già, un lampo accecante! Luminosissimo! Da far dimenticare ogni altra
cosa. Un lampo accecante e, al centro di quell'esplosione di luce, il 3 e la m.
R: Hai visto veramente un lampo accecante? C'era proprio o stai usando una
metafora?
E.: Sicuro. Oscurava ogni cosa, tranne il 3 e la m.
R.: Ti rendevi conto d'essere in uno stato alterato? Da bambino qual’eri, ti
meravigliavi di un'esperienza così strana?
E.: t, così che impariamo le cose.
R: - Penso che sia quello che chiamerei un momento creativo (Rossi, 1972, 1973).
Hai sperimentato una vera alterazione percettiva: un lampo con il 3 e la m al
centro. Avevano proprio delle gambe?
: Li ho visti com'erano. [Erickson fa lo schizzo di un effetto nube con al
centro un 3 e una m]. Escludevano ogni altra cosa!
R: Era un'allucinazione visiva? A sei anni hai effettivamente avuto un
importante insight intellettuale sotto forma di allucinazione visiva?
E: Sì, non ricordo nient'altro di quel giorno. Il lampo più accecante, più
abbagliante l'ho avuto al secondo anno di scuola secondaria. Tanto nella scuola
elementare quanto in quella secondaria mi avevano soprannominato 'Dizionario'
perché passavo un sacco di tempo sul dizionario. Un giorno, poco dopo il segnale
d'inizio dell'intervallo di mezzogiorno, me ne stavo seduto al mio solito posto
in fondo all'aula e leggevo il dizionario. D'un tratto vi fu un lampo
luminosissimo che mi abbagliò, perché avevo imparato a usarlo. Sino a quel
momento, leggevo il dizionario. D'un tratto vi fu un lampo luminosissimo che mi
abbagliò, perché avevo imparato a usarlo. Sino a quel momento, quando dovevo
cercare una parola, cominciavo dalla prima pagina e continuavo a leggere colonna
per colonna, pagina per pagina, finché non arrivavo al vocabolo desiderato. In
quel lampo accecante capii che per cercare una parola usiamo l'alfabeto come un
sistema ordinato. Gli allievi che si portavano la colazione da casa andavano
sempre a mangiarla nel piano interrato. Non so quanto tempo rimasi al mio posto,
abbagliato dalla luce accecante, ma quando scesi quasi tutti avevano finito di
mangiare. Quando mi chiesero perché arrivassi con tanto ritardo, sapevo già che
non gli avrei detto che avevo appena imparato a usare il dizionario. Non so
perché ci avevo messo tanto tempo. Non potrebbe darsi che il mio inconscio
rifiutasse di farlo proprio per la grande quantità di nozioni che ricavavo dalla
lettura integrale del dizionario? ( ... )
E: Devo avere avuto una leggera dislessia. Non avevo dubbi sul fatto che quando
dicevo: co-mick-al, vin-gar, goverment e mung, la mia pronuncia fosse identica
ai suoni prodotti quando gli altri dicevano: comical, vinegar, government e
spoon. Quando facevo il secondo anno di scuola secondaria, la professoressa di
dizione cercò inutilmente per un'ora intera di farmi dire: government. Poi, con
una improvvisa ispirazione, si servì del nome di un mio compagno, 'La Verne', e
scrisse sulla lavagna: 'govLaVemement'. Io lessi: 'govlavernement'. Lei allora
me lo fece rileggere omettendo il La di La Verne. Quando lo feci, una n
accecante cancellò altro oggetto circostante compresa la lavagna. Devo a Miss
Walsh la mia tecnica di introdurre l'inatteso e il non pertinente in uno schema
fisso e rigido fino a farlo esplodere. Oggi è venuta una paziente, tutta
tremante e singhiozzante: "Sono stata cacciata via. Ne capita sempre. Il mio
capo ufficio mi strapazza. Ricevo degli insulti e piango sempre. Oggi mi ha
urlato: 'Stupida! Stupida! Fuori di qui! Fuori!'. Ed eccomi qui". Le ho detto
con estrema coscienza e serietà: "Perché non gli dice che bastava che lui glielo
facesse sapere e lei avrebbe lavorato volentieri in un modo ancora più stupido!
". È rimasta perplessa, sconcertata e sbigottita, poi è scoppiata in una risata.
Il resto del colloquio si è svolto bene, con risate improvvise in genere
all'indirizzo di se stessa.
R: Le sue risate indicano che l'hai aiutata a far breccia nella sua visione
limitata di se stessa come vittima. In quella vecchia esperienza con Miss Walsh
è illustrato un principio fondamentale del tuo approccio di utilizzazione: lei
aveva utilizzato la tua capacità di pronunciare LaVerne per aiutarti a irrompere
fuori del tuo errore stereotipo nella pronuncia della parola government" (Milton
H. Erickson, Opere vol. I, Astrolabio, Roma 1982, pp. 138-140).
Erickson finì con lo scoprire in completa autonomia i fenomeni ipnotici (ideodinamici)
nel corso della sua riabilitazione. Sviluppo inoltre una enorme capacità di
attenzione e percezione dell’ambiente circostante, in particolare in rapporto ai
segnali non verbali quando cercò di rimparare dalla sua sorellina piccola a
camminare. In questo periodo che sviluppa la sua tecnica di utilizzazione, cioè
di recuperare le proprie risorse inconscie:
Se c'è mai stato qualcuno che ha impersonato l'archetípo del medico malato,
colui che impara a guarire gli altri guarendo innanzitutto se stesso questi fu
Milton H. Erickson.
L'esperienza più formativa nei suoi primi anni di vita fu a sua prima lotta con
la poliomielite all'età di diciassette anni (il secondo attacco lo ebbe all'età
di 51 anni). Nel seguente dialogo egli così ricorda quella crisi della sua vita,
e la propria esperienza di uno stato percettivo alterato, che successivamente
riconobbe essere una sorta di autoipnosi:
"E: Quella sera, dal mio letto, udii per caso i tre medici dire ai miei
genitori, nella stanza accanto, che il loro ragazzo non sarebbe arrivato al
mattino. Divenni furibondo all'idea che qualcuno potesse dire a una madre che il
figlio sarebbe morto entro il mattino. Poi mia madre entrò con l'espressione più
serena che le riuscì di prendere. Le chiesi di spostare il comò, spingendolo
d'angolo contro il lato del letto. Lei non capiva perché; pensava che stessi
delirando. Parlavo con difficoltà. Ma in quell'angolo, grazie allo specchio che
sormontava il comò, riuscivo a vedere attraverso la porta e la finestra di
ponente dell'altra stanza. Non volevo a ogni costo morire senza aver visto
un'ultima volta il tramonto. Se avessi qualche attitudine al disegno, potrei
ancora disegnarlo.
R: La tua rabbia e la tua voglia di vedere un altro tramonto sono state un modo
di mantenerti vivo in quel giorno critico nonostante le previsioni dei medici.
Ma perché la chiami un'esperienza autoipnotica?
E: Vedevo quel vasto tramonto che copriva interamente il cielo. Sapevo però che
fuori della finestra c'era anche un albero, ma lo avevo escluso.
R: Lo avevi escluso? Si trattava di quella percezione selettiva che ti permette
di dire che eri in uno stato alterato?
E: Sì, non lo facevo consciamente. Vedevo tutto il tramonto, ma non vedevo né la
siepe né la grande roccia rotonda che c'erano. Avevo escluso tutto, meno il
tramonto. Dopo averlo visto rimasi per tre giorni senza coscienza. Quando tornai
in me chiesi a mio padre perché avessero tolto la siepe, l'albero e la roccia.
Non mi rendevo conto d'essere stato io a cancellarli quando avevo fissato tanto
intensamente l'attenzione sul tramonto. In seguito, quando fui guarito e divenni
consapevole delle mie condizioni inabilitanti, mi chiesi come avrei fatto a
guadagnarmi da vivere. Avevo già pubblicato un articolo su una rivista agricola
nazionale: "Perché i giovani abbandonano la campagna". Non avevo più le forze
necessarie per fare l'agricoltore, ma forse avrei potuto farcela come medico.
R: Diresti che è stata l'intensità della tua esperienza interiore, il tuo
spirito e il tuo senso di sfida, a tenerti in vita perché potessi vedere il
tramonto?
E: Certo ai pazienti con scarse prospettive diciamo: "Dovreste vivere abbastanza
per farlo il mese prossimo". E loro lo fanno." (Milton H. Erickson, Opere vol.
I, Astrolabio, Roma 1982, pp. 140-141)
Il modo in cui Milton si riprese costituisce uno dei racconti di auto-guarigione
e scoperta più affascinanti che io abbia mai sentito. Quando si svegliò dopo
quei tre giorni, si trovò quasi del tutto paralizzato: sentiva i suoni molto
bene, vedeva e poteva muovere le pupille, poteva parlare, con grande difficoltà,
ma per il resto non poteva fare nessun altro movimento. Nella sua comunità
rurale non esisteva nessuna struttura per la riabilitazione, e a detta di tutti
egli sarebbe rimasto senza l'uso degli arti per tutto il resto della sua vita.
Ma la sua acuta intelligenza continuò a lavorare. Egli imparò, per esempio,
standosene tutto il giorno a letto, a fare dei giochi con la mente,
interpretando i suoni che gli provenivano dall'ambiente: dal suono che faceva la
porta della stalla nel chiudersi, e dal tempo che impiegavano i passi a
raggiungere la casa, lui riusciva a dire di che persona si trattava e di quale
umore era.
Poi venne il famoso giorno in cui i suoi familiari si scordarono di averlo
lasciato solo, inchiodato nella sedia a dondolo. (Gli avevano costruito una
specie di primitivo vaso da notte intagliando un foro nel sedile). La sedia a
dondolo si trovava all'incirca nel mezzo della stanza, e Milton, seduto in essa,
guardava ardentemente la finestra, col desiderio di esservi più vicino, in modo
d'avere almeno il piacere di poter guardare la fattoria lì fuori. Mentre era lì
seduto, apparentemente immobile, preso dai suoi desideri e dai suoi pensieri,
improvvisamente la sua sedia aveva cominciato a dondolare leggermente, Che
enorme scoperta! Era un caso?
Oppure il suo desiderio di essere più vicino alla finestra non aveva forse
effettivamente stimolato qualche minimo movimento del corpo, che aveva
cominciato a far dondolare la sedia?!
Questa esperienza, che probabilmente alla maggior parte di noi sarebbe passata
inosservata, portò il ragazzo diciassettenne a un periodo di febbrile
esplorazione di sé e di scoperta. Milton stava scoprendo da solo il principio
ideomotorio fondamentale dell'ipnosi esaminato da Berneim una generazione prima
che il solo pensiero o la sola -idea di un movimento potevano portare
all'effettiva esperienza di un movimento automatico del corpo. Nelle settimane e
nel mesi che seguirono, Milton andò a ripescare tutti i suoi ricordi sensoriali
per cercare di reimparare a muoversi. Per esempio, si guardava per ore e ore la
mano, e cercava di ricordare che sensazione gli avevano dato le dita quando
tenevano un forcone. A poco a poco si accorse che le sue dita cominciavano a
fare dei piccoli scatti e a muoversi leggermente in modo scoordinato. Continuò
sino a che i movimenti diventarono più ampi, e lui poté controllarli
coscientemente. E in che modo la mano afferrava un ramo d'albero? Come si
muovevano gambe, piedi e dita quando si arrampicava su un albero?
Non erano semplici esercizi di immaginazione; erano esercizi di attivazione di
reali ricordi sensoriali ricordi che ri-stimolarono la sua coordinazione
senso-motoria tanto da permettergli di guarire. Ciò appare evidente dal seguente
stralcio di colloquio:
"E: Dapprima cercai di imparare a rilassarmi e ad accrescere la mia forza. Mi
costruii dei tiranti elastici che potevo tendere contro certe resistenze. Ogni
notte facevo quest'esercizio e tutti gli altri possibili. Poi mi accorsi che
avrei potuto camminare per stancarmi e liberarmi dal dolore. A poco a poco capii
che, se fossi riuscito a pensare al fatto di camminare, stancarmi e rilassarmi.
ne avrei avuto un sollievo.
R: Il solo fatto di pensare a camminare e a stancarti riusciva ad alleviarti il
dolore allo stesso modo dell'effettivo processo fisico?
E: Sicuro, poco per volta ci riuscì.
R: Nelle tue esperienze di autorieducazione, tra i 17 e i 19 anni, ti sei reso
personalmente conto che potevi servirti dell'immaginazione per ottenere gli
stessi risultati che avresti ottenuto con uno sforzo fisico reale.
E: Di un intenso ricordo più che dell'immaginazione. Ci ricordiamo di certi
gusti, sappiamo che la menta ci dà quella certa sensazione di fresco. Da bambino
mi arrampicavo su un albero di un boschetto, poi saltavo da un albero all'altro
come una scimmia. Ho cercato di ricordare le varie contorsioni e giravolte che
facevo per scoprire quali sono i movimenti che facciamo quando abbiamo la piena
disponibilità dei nostri muscoli.
R: Attivavi dei ricordi reali dell'infanzia per capire quanta parte del
controllo muscolare avessi perduto e trovare il modo di riacquisirlo.
E: Sì, ci serviamo di ricordi reali A 18 anni cercavo di ricordare tutti i
movimenti che facevo da bambino per aiutarmi a riapprendere la coordinazione
muscolare (Milton H. Erickson, Opere vol. I, Astrolabio, Roma 1982, pp.
141-142).
Ma perché potesse guarire era necessario qualcosa di più della semplice
introspezione: l'osservazione del mondo esterno.
Fortunatamente in quel periodo la sua sorella minore, Edith Carol, stava appena
imparando a camminare. Milton iniziò una serie di osservazioni giornaliere nelle
quali notava il suo modo (soprattutto inconscio) di imparare a camminare, in
modo da poterlo copiare consapevolmente, e così costringere il proprio corpo a
fare lo stesso. In una conversazione sinora inedita, egli così parla di quel
periodo:
Imparai a stare in piedi guardando la mia sorellina che imparava a stare in
piedi:
usa le tue due mani come base, allarga le gambe, usa le ginocchia come base
larga, e poi poggia più peso su un braccio e una mano e sollevati. Ondeggia
avanti e indietro per trovare l'equilibrio. Esercitati a piegare le ginocchia e
a mantenere l'equilibrio. Dopo che il corpo è in equilibrio, muovi la testa.
Dopo che il corpo è in equilibrio muovi la mano e la spalla. Metti un piede
davanti all'altro mantenendoti in equilibrio. Cadi. Riprova.
Dopo undici mesi di questo intensivo allenamento, Mílton camminava ancora sulle
stampelle, ma stava imparando rapidamente a camminare in modo sempre meno
faticoso, in modo da sottoporre a minima tensione il suo corpo.
Scopre anche l’uso del doppio legame e dei paradossi molto presto:
"Il mio primo uso intenzionale del doppio legame che ricordi con esattezza
risale agli inizi dell'adolescenza. Un giorno invernale, con temperatura sotto
zero, mio padre fece uscire dalla stalla un vitello per portarlo
all'abbeveratoio. Dopo averlo dissetato ripresero la via della stalla, ma quando
giunsero alla porta l'animale puntò testardamente i piedi e non volle saperne di
entrare nonostante gli sforzi disperati di mio padre che lo tirava per la
cavezza. Io stavo giocando con la neve e, al vedere quella scena, scoppiai in
una gran risata. Allora mio padre mi sfidò a fare entrare il vitello nella
stalla. Visto che si trattava di una resistenza ostinata e irragionevole da
parte dell'animale, decisi di dargli la più ampia occasione di continuarla
secondo quello che era chiaramente il suo desiderio. Di conseguenza lo posi di
fronte a un doppio legame: lo presi per la coda e lo tirai fuori dalla stalla,
mentre mio padre continuava a tirarlo verso l'interno. Il vitello decise subito
di opporre resistenza alla più debole delle due forze e mi trascinò nella
stalla" (Milton H. Erickson, Opere vol. I, Astrolabio, Roma 1982, pp. 469-470)."
Più avanti nella vita adulta le esperienze di autoipnosi spontanea lo
accompagnarono dandogli quella fiducia nell’inconscio che lo caratterizza:
"E: Continuavo a osservare sempre. Ti dirò quale è stata la cosa più presuntuosa
che abbia mai fatto. Avevo vent'anni ed ero nel primo semestre del secondo anno
di college quando cercai di ottenere un posto al quotidiano locale, The Daily
Cardinal, nel Wisconsin. Volevo scrivere articoli di fondo. Il direttore, Porter
Butz, mi accontentò e mi disse che avrei potuto lasciarglieli nella buca delle
lettere andando la mattina a scuola. Dovevo però leggere e studiare moltissimo
per compensare la mia scarsa preparazione letteraria della campagna. Volevo
farmi una vasta cultura. Un'idea di come procedere mi venne ricordando il modo
in cui, quand'ero più giovane, a volte correggevo in sogno dei problemi di
aritmetica.
Il mio piano era questo: avrei studiato la sera e sarei andato a letto alle
dieci e mezza, addormentandomi immediatamente, dopo aver caricato la sveglia per
l'una di notte. A quell'ora mi sarei alzato, avrei scritto a macchina
l'articolo, avrei messo la macchina sopra le pagine scritte e me ne sarei
tornato a dormire. Al mio risveglio, il mattino dopo, mi meravigliai moltissimo
di trovare qualcosa di scritto sotto la macchina, perché non ricordavo affatto
d'essermi alzato per scrivere. Era così che scrivevo ogni volta gli articoli.
Volutamente non li rilessi, ma ne conservai una copia a carta carbone. Lasciai
gli articoli non riletti nella cassetta delle lettere, poi diedi ogni giorno
un'occhiata al giornale, per vedere se fossero stati pubblicati, ma con esito
negativo. Alla fine della settimana esaminai le copie che avevo fatto e
constatai di avere scritto tre articoli che erano stati tutti pubblicati.
Riguardavano per lo più il college e il suo rapporto con la comunità locale. Non
avevo riconosciuto ciò che io stesso avevo scritto vedendolo stampato e avevo
dovuto controllare le mie copie per averne la prova.
R: Perché decidesti di non rileggere al mattino gli scritti della notte?
E: Mi chiesi se sarei stato capace di scrivere degli articoli. Il fatto di non
riconoscere le mie parole sulla pagina stampata significava che nella mia mente
c'erano molte più cose di quante non pensassi. Ebbi così la prova d'essere più
intelligente di quel che credevo. Quando volevo sapere qualcosa non volevo che
la conoscenza imperfetta di qualcun altro la deformasse. Il mio compagno di
stanza osservava con curiosità le mie alzate all'una di notte per scrivere a
macchina. Mi disse che sembravo non accorgermi di nulla quando mi scuoteva la
spalla, e si chiedeva se camminassi e battessi a macchina nel sonno. Gli dissi
che doveva essere proprio così, perché a quel tempo non vedevo assolutamente
altre spiegazioni. Fu solo al terzo anno di college che frequentai i seminari di
Hull e cominciai le mie ricerche sull'ipnosi.
R: Con un approccio naturalistico, pratico di questo tipo, potremmo far
apprendere ad altri l'attività sonnambulica e l'autoipnosi? Uno potrebbe
caricare la sveglia in modo da alzarsi a metà sonno e svolgere qualche attività
che poi potrebbe dimenticare. Sarebbe un modo di addestrarsi all'attività
dissociativa e all'amnesia ipnotica?
E: Sicuro, e dopo qualche tempo la sveglia non sarebbe più necessaria. Ho
istruito in questo modo molti allievi" (Milton H. Erickson, Opere vol. I,
Astrolabio, Roma 1982, pp. 143-144).
Ma per quanto, stando a questi primi esperimenti col proprio inconscio, il
giovane Mílton sembrasse avere il mondo in pugno, c'erano lezioni ancora più
importanti da imparare.
Quanto segue è un esempio di come questo giovane americano di campagna abbia
cominciato a pensare al suo futuro di medico:
"E: Quand'ero agli inizi dei miei studi di medicina ebbi un'esperienza molto
amara.
Ero stato incaricato di visitare due pazienti. Il primo era un vecchio
settantatreenne, un individuo sgradevole sotto ogni aspetto: fannullone,
alcolizzato, ladro, che era sempre vissuto a carico dell'assistenza pubblica.
Questo tipo di vita m'interessava: feci un'accurata anamnesi e mi informai di
ogni particolare. Risultò chiaro che costui aveva buone probabilità di superare
gli ottant'anni. Poi passai al secondo paziente. Era una delle più belle ragazze
che avessi mai visto: una personalità affascinante e di grande intelligenza.
Visitarla era un piacere. Poi, mentre le esaminavo gli occhi, mi trovai a dirle
che avevo scordato di fare qualcosa: mi scusasse, sarei tornato al più presto.
Andai nella sala di riunione dei medici e consideraí il futuro. La giovane aveva
il morbo di Bright e poteva dirsi fortunata se fosse riuscita a vivere per altri
tre mesi. Vidi l'ingiustizia della vita. Un vecchio fannullone di 73 anni, che
non aveva mai fatto niente di meritevole, non aveva mai dato niente, era stato
solo distruttivo. Qui invece una ragazza stupenda e affascinante, che aveva
tanto da offrire. Dissi a me stesso:
"Pensaci sopra e ricavane una visione dell'esistenza, perché come medico ti
troverai continuamente di fronte a qualcosa del genere: alla assoluta
ingiustizia della vita".
R: Come c'entra lo stato autoipnotico?
E: Lì ero solo. So che gli altri entravano e uscivano dalla sala, ma io non ne
avevo coscienza. Stavo guardando nel futuro.
R: In che modo? Avevi gli occhi aperti?
E: Li avevo aperti. Vedevo i bambini non ancora nati, quelli che dovevano ancora
crescere e diventare quel dato uomo e quella data donna, che sarebbero morti a
20, 30 o 40 anni. Alcuni sarebbero vissuti sino a 80 o a 90 anni, e consideravo
il loro valore come individui.
Persone di ogni tipo, con le loro occupazioni, la loro vita: tutte mi passavano
davanti agli occhi.
R: Era una specie di pseudo-orientamento nel futuro? Hai vissuto
nell'immaginazione la tua vita futura?
E: Sì, non si può praticare la medicina se si è sconvolti emotivamente. Ho
dovuto imparare a riconciliarmi con l'ingiustizia della vita in quel contrasto
tra la ragazza avvenente e il vecchio fannullone settantatreenne.
R: Quando ti sei accorto di trovarti in uno stato autoipnotico?
E: Capivo di essere assorto come quando scrivevo gli articoli e lo ero
semplicemente, senza cercare di esaminare questo mio stato. Vi ero entrato per
orientarmi verso il mio futuro di medico.
R: Ti sei detto: "Ho bisogno di orientarmi sul mio futuro di medico". Allora è
subentrato il tuo inconscio e hai avuto questo profondo sogno a occhi aperti.
Perciò quando entriamo in autoipnosi diamo a noi stessi un problema e poi
lasciamo che se ne occupi l'inconscio. I pensieri venivano e se ne andavano da
soli? Erano cognitivi o espressi in immagini?
E: Tutte e due le cose. Vedevo il bambino piccolo crescere e farsi uomo" (Milton
H. Erickson, Opere vol. I, Astrolabio, Roma 1982, pp. 144-145).
A differenza delle terapie in voga Erickson non dava importanza all’insight e
promuoveva varie tecniche innovative come le suggestioni indirette, i doppi
legami, le metafore, la disseminazione di concetti, l’utilizzazione secondo il
famoso principio: "tutto ciò che il paziente ti presenta in studio, va
assolutamente utilizzato."
Chiaramente Erickson non arrivò subito a utilizzare tali tecniche, iniziò con il
classico approccio all’ipnosi per poi sviluppare un proprio stile centrato sul
cliente: nel 1973 egli disse : "... le persone vengono per essere aiutate, ma
anche per ricevere qualche giustificazione razionale del proprio comportamento e
per salvare la faccia. Io mi preoccupo molto di rispettare questa loro necessità
e cerco di parlare in modo tale da dare la sensazione che sono dalla loro parte"
(Haley, 1975)
L’inconscio descritto da Erickson non era quello di Freud, si trattava di una
forza amica dalla quale trarre risorse ma che funziona comunque secondo la
logica descritta da Freud cioè per metafora e metonimia.
Per capire come Erickson intendeva l’inconscio basta prendere alcune parti delle
sue induzioni:
"E nello stato di trance puoi lasciare che la tua mente inconscia passi in
rassegna il vasto deposito di cose che hai appreso, che hai appreso nel corso
della tua vita. Ci sono molte cose che hai imparato senza saperlo. E molte delle
conoscenze che ritenevi importanti a livello conscio sono scivolate nella tua
mente inconscia."
Erickson era capace di comunicare all’inconscio poiché utilizzava il suo stesso
linguaggio mentre al contempo distraeva e sovraccaricava la mente cosciente. E
in effetti sembra che Erickson considerasse l’Io cosciente la vera causa dei
problemi con i suoi pregiudizi, i suoi schemi rigidi e le convinzioni limitanti.
Quindi l’ipnosi come spiega Erickson "di per sé non provoca la guarigione,
questa è ottenuta tramite una ri-associazione delle esperienze della persona"
(Opere, Vol. IV)
Si può anche dire che Erickson era un pragmatico, non arrivò a sviluppare una
teoria completa della personalità. Scrive Lankton: "[...] secondo alcuni
l’influsso di Erickson eguaglia quello avuto da Freud. Ma se Freud può essere
considerato come l’Einstein della teoria, Erickson sarà ricordato come l’Einstein
dell’intervento terapeutico."
Erickson sviluppa più che altro una teoria dell’intervento strategico che si
basa sui seguenti punti a parere di Lankton:
1. La persona agisce secondo la propria mappa interna, e non secondo la propria
esperienza sensoriale.
2. In un qualsiasi dato momento, la scelta che la persona compie è quella per
lei migliore
3. La spiegazione, la teoria o la metafora cui si ricorre per dire qualcosa su
una persona non esauriscono la totalità della persona
4. Rispettate tutti i messaggi del cliente
5. Insegnate a scegliere, non cercate mai di limitare la scelta
6. Le risorse di cui il cliente ha bisogno risiedono nella sua storia personale
7. Andate incontro al cliente all’interno del suo modello del mondo
8. L’elemento più forte di un sistema è la persona che dispone della maggiore
flessibilità o possibilità di scelta
9. Non è possibile non comunicare
10 Se una cosa è troppo difficile, suddividetela in pezzi
11. Il risultato è determinato a livello inconscio
Potremmo anche aggiungere che Erickson aveva fiducia nel processo inconscio e
nelle sue risorse. Inoltre si concentrava sul positivo e sulla soluzione
piuttosto che sui problemi o sull'elaborazione di teorie complicate.
Proprio in riferimento al punto 10 occorre rendersi conto che Erickson era
veramente abile nel ridurre le variabili complesse in variabili semplici. Era
capace di redarre una induzione di 30 pagine per poi ridurla fino a una pagina e
mezza. Questa è una caratteristica dei grandi retori, che potremmo definire come
la conclusiva brevità ovvero la capacità di esprimere compiutamente e
concisamente il proprio pensiero. Ma questa abilità la si può trovare solo alla
fine di un lungo percorso di affinamento. Scriveva Pascal: "Mi scuso per avere
scritto una lettera così lunga, non avevo tempo per scriverne una più breve."
Erickson era veramente meticoloso, arrivò per esempio a registrare e a studiare
gli schemi linguistici usati da uno psicotico per poi comunicare nel suo stesso
stile.
Quel caso è anche una perfetta dimostrazione del punto 7: Erickson ricalcava e
utilizzava la mente cosciente del cliente per poi comunicare nel suo stesso
stile a livello verbale e non verbale e per far ciò occorre una enorme
flessibilità e acutezza sensoriale, infatti il terapeuta deve trasformarsi in
uno strumento di biofeedback per il cliente.
Dominique Megglé spiega che l’approccio alla terapia di Erickson in realtà ne
riassume diversi: "Per la sua inclinazione alla sperimentazione (ma solo in
laboratorio!) e per l’importanza attribuita all’apprendimento, la terapia
eriksoniana si avvicina alle terapie comportamentali. Per il suo orientamento
sulle qualità del trattamento dell’informazione (differenti fra conscio e
inconscio) essa evoca le terapie cognitive. Per il suo lavoro sulle associazioni
mentali, i simboli inconsci e per l’attenzione all’economia psichica, si situa
nella corrente psicanalitica. Infine per il suo interesse volto più alla
crescita della persona che alle sue deficienze, può essere considerata una
terapia umanistica." (Dominique Megglé, Psicoterapie brevi, Red
Torna all'Home Page