Se dici “Il re è nudo”…….

LearningNews Agosto 2012, anno VI – N. 8

Se dici “Il re è nudo”, può accadere che ti chiedano “Scusa, di quale re parli?”

di Piero Trupia * Linguista, cognitivista, epistemologo, consulente, formatore. Autore di numerosi saggi, tra cui “Cento talleri di verità. Autobiografia didattica per eventi”, nuova edizione, Franco Angeli 2009. Team Leader del Gruppo ‘Regioni nazionali e internazionali’.

Non credo nell’esistenza dell’inconscio e, rileggendo attentamente Freud, mi sono convinto che non ci credeva neanche lui. Avendo però costruito una dottrina e una terapia su quella base, sperò tutta la vita che una qualche evidenza potesse sorgere dalla pratica clinica. Non accadde.

Malgrado le defezioni e le prese di distanza di allievi e simpatizzanti la psicoanalisi si salvò e, a distanza di quasi un secolo, si continua a parlare d’inconscio. I pazienti non guariscono. Non devono guarire, è la replica degli interessati (professionalmente). Basta che  riescano a convivere con la loro malattia. Una reinvenzione del peccato e dei sacramenti, senza la speranza dell’oltretomba.

Nella stessa condizione si trovano oggi quelle scienze umane consolidatesi tra Otto e Novecento. Qui mi soffermo sull’economia che è il referente della formazione manageriale.

Ebbene, le sue fondamenta sono corrose, ma pochi hanno il coraggio, non dico di denunciarlo, ma di accorgersene.

Agli inizi degli anni ’90 mi ritrovai a vivere un incubo, senza alcuna certezza, come in ogni incubo che si rispetti, che si trattasse di sogno o di realtà.

Senza sapere come, mi trovai a far parte di una Commissione di studio della Scuola Normale Superiore di Pisa sui rischi finanziari e assicurativi.

Il gota bancario e assicurativo, in una parola finanziario, era presente. Il guest speaker un economista matematico, coautore di un reading sul Principio di arbitraggio.

Capii che si trattava dei modi di combinare un portafoglio titoli e i loro derivati, da giocare nel mercato finanziario, sapendo matematicamente quali rischi si corrono.

Questa è una pietra filosofale, fu il mio primo pensiero, mentre aprivo al massimo la mente per capirne di più.

Al primo lunch mi ritrovai a un tavolo con alcuni giovanotti. Erano gli sherpa dei personaggi che si erano raggruppati tra di loro agli altri tavoli.

La cosa non mi dispiacque. Era l’occasione per apprendere, essendo gli sherpa i veri specialisti della materia, di cui i loro referenti, discettanti dal palco, leggevano i pensieri, spesso incespicando per scarsa familiarità con i contenuti.

Tornati in sala, ebbi la rivelazione. Il matematico finanziario dichiarò e illustrò il fondamento del principio di arbitraggio. Era la  formula di Black e Scholes, due matematici americani vincitori con essa del premio Nobel.

Forte della mia preparazione matematica in una delle migliori facoltà del mondo, quella dell’università di Palermo, mi resi quasi subito conto che quell’equazione alle derivate parziali era fondata, come tutte le formule, su alcune assunzioni tutt’altro che granitiche. In ogni caso il Principio di arbitraggio valeva rebus sic stantibus.

Lo dissi naturalmente, non avendo nulla da perdere e ancor meno da guadagnare. Mi guadagnai il compatimento non solo dei finanzieri ma anche degli sherpa.

Vissi il resto dell’incontro in perfetto isolamento, fecondo però. Non avevo preoccupazione di fare un mio intervento – quello che avevo fatto non richiedeva alcuna integrazione, né meritava alcun commento – e mi concentrai sulle diverse illustrazioni delle tecniche di arbitraggio, rafforzandomi nella convinzione che non c’era alcuna pietra filosofale in vista.

Non pietra filosofale ma rischioso business speculativo C’era però la possibilità di un grandioso business, proponendo anche a tutti i riscossori di una liquidazione, nonché all’orfano e alla vedova, agli Enti Locali assetati di liquidità la possibilità di una gestione  patrimoniale alquanto lauta. A una condizione non arbitrabile tuttavia: allo scoppio della bolla il patrimonio si sarebbe dileguato. Ma di ciò i promotori finanziari porta a porta non facevano alcun cenno.

In realtà né loro, né i direttori della loro banca sapevano alcunché della formula di Black e Scholes e del rischio mortale non arbitrabile in essa contenuto.

La prova? Black e Scholes fondarono il Long term capital management, un fondo d’investimento dal successo fulmineo. Per quattro anni, quando fallì miseramente, dopo che i gestori avevano occultato i loro guadagni.

Da quell’esperienza pisana ricavai due positive conseguenze pratiche: non affidai a nessuno la mia modesta liquidazione – parva sed apta mihi – e compresi pienamente l’essenza del Principio di arbitraggio e della finanza creativa.

Due le sue componenti: la scommessa, a sua volta fondata sulla logica che la vincita di uno comporta necessariamente la perdita per qualche centinaio di migliaia di altri scommettitori, e la Catena di S, Antonio.

Il Fondo Patrimoniale tiene, è solvibile, fino a quando il numero dei sottoscrittori supera di un quantum il numero di coloro che rivogliono indietro i loro soldi. In caso contrario non li riavranno, per il semplice fatto che si sono volatilizzati.

Per una ragione semplice. I sottoscrittori iniziali sono stati attratti con l’offerta di rendimenti elevati, insostenibili e innescanti lo scoppio a termine della bolla. Questione di tempo.

Basta un turbamento del mercato, si dice. È vero, ma non è tutto. Il turbamento del mercato è sempre in agguato, su fatti che non hanno nulla a che fare con la finanza, quali la mucca pazza, l’influenza aviaria, lo tsunami in Indonesia o la siccità in Africa. Ma se non ci pensa il mercato, ci pensano gli speculatori a creare il turbamento, quando decidono di far scoppiare la bolla.

Essendo la finanza mondiale concentrata in poche mani – meno di dieci – e potendo investire con un clic cifre colossali con il cosiddetto leverage, soldi in prestito a iosa con pochi soldi propri e offrendo in garanzia i titoli che vogliono comprare con quei soldi. Scommesse, naturalmente. Sul prezzo del grano ad esempio, affamando ancora un po’ gli affamati, se ne hanno fatto alzare il prezzo, o rovinando i produttori, se lo hanno fatto diminuire.

L’economia: tra esoterismo e idolatria

Ho studiato matematica e ho studiato economia, e mi sono fatto una convinzione.

L’economia è stata una cosa seria all’inizio con Le Opere e i Giorni di Esiodo, con il trattatello di Aristotele che inventò il nome e, fino al ‘700, con i fisiocrati e con la Scuola Napoletana (Galiani, Filangieri, Genovesi).

Poi è diventata scienza della natura, come la fisica, e, come questa, completamente matematizzata.

Non essendo però in essenza scienza della natura, ma scienza sociale e umana quant’altre mai, ha perso contatto con la realtà.

Oggi è una dottrina fra l’esoterico e l’idolatrico. Esoterica perché la veste matematica è accessibile a pochi iniziati; idolatrica perché fondata sull’adorazione di alcuni idoli e sui sacrifici che questi richiedono. Il mercato, la produttività, l’efficienza, la crescita sono gli idoli. I sacrifici che richiedono sono sacrifici umani. Di giovani che non hanno un lavoro e di anziani, con famiglia a carico e mutuo da pagare, che lo perdono nel mezzo del cammin di loro vita.

Per Aristotele il fine dell’economia era “la vita buona”, per noi oggi è il pareggio di bilancio, il risanamento del debito, la crescita. “Senza crescita, non ci può essere risanamento e non si possono creare posti di lavoro”. Ma ove mai ci si riuscisse, si ricomincerebbe con il debito pubblico, che è il vero motore della vita politica, e si riaprirebbe un altro ciclo che avrebbe, a termine, l’identica  conclusione del precedente.

Il fondamento dell’economia moderna è La Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, professore di Teoria dei sentimenti morali, alias Etica, all’università di Glasgow.

Schizofrenico il Nostro, poiché il suo trattato è profondamente immorale.

Sostiene che il salario degli operai dev’essere quello razionale: che basti appena al loro sostentamento fisico, a quello di una moglie e di due figli, quanto basta per assicurare la riproduzione della forza lavoro, a fronte di un tasso di mortalità infantile del 50%.

Sostiene che bisogna impedire ai lavoratori di spostarsi da una contea in crisi a una ad alta occupazione, perché questo turberebbe il mercato del lavoro.

Fortunatamente il governo del tempo aveva provveduto con il Settlement Act. Nessuno si muova da dove risiede. Si muoia di colera o di carestia è l’ordine razionale delle cose.

Ci sono poi le aporie del sistema smithiano. Queste, ben inteso, avevano qualche plausibilità, politica tuttavia, non economica, nel ‘700, non più oggi. Valga lo stesso titolo: Ricchezza delle Nazioni.

Si rifletta: “delle nazioni”, non delle persone. Tramite il mercato politico, non economico, quella ricchezza sarebbe finita nelle mani delle classi coinvolte nell’avventura imperiale della nazione britannica. England rules the wawes.

Ora siamo nel postmoderno. È ora quindi di cambiare musica.

La nazione non può reggere da sola neanche la propria economia.

Neanche gli USA, il cui debito pubblico è per il 65% in mano cinese e neanche la Cina che, se non esporta la sua paccottiglia e i suoi ristoranti a basso prezzo, si ferma.

Perché poi la ricchezza? Alla gente sana e normale non serve la ricchezza, serve la provvista: la spesa, le scarpe e i libri, l’università e

anche il master per i figli, un’abitazione, un’assicurazione contro le malattie, una vacanza di prossimità. Il resto è consumismo, principale responsabile della distruzione del pianeta.

Appunto, il pianeta. Nel sistema razionale di Smith è un fattore. Usatene a piacimento. Sbagliato. Si esaurisce e non ce n’è un altro.

Al contrario delle favole che avevano una morale molto pratica, la letteratura di fantascienza parla di qualcosa che non esiste. Nessun

pianeta abitabile, ammesso che esista, è raggiungibile da questo angolo dell’universo. Conclusione, oggi la terra non è fattore; è patrimonio. Idem per il fattore lavoro che deve diventare attore e obiettivo qualificante dell’economia al posto della ricchezza.

Queste sono le correzioni urgenti dell’economia, per passare dal moderno al postmoderno.

Economia e formazione manageriale

E la formazione manageriale? Deve urgentemente interrogarsi su cos’è l’impresa oggi, cos’è il contesto economico, cosa sostituire a quegli idoli che ci hanno portato alla situazione presente, la quale, se mai verrà superata, lo farà a un prezzo.

Non soltanto quello di un perenne commissariamento degli Stati a cura di inaccessibili centri di potere tecnocratico, ma di un commissariamento degli stessi cittadini che non saranno più padroni della loro vita, dopo la breve parentesi delle celebrate magnifiche sorti e progressive dell’industrialismo.

Un’altra economia è però possibile. Spero che tra i marosi e le raffiche della nostra regata, se ne possa intravvedere qualche barbaglio.

Penso però che la formazione manageriale, la formazione degli adulti devono fare la loro parte. Prendere l’iniziativa e rifondarsi su una reale consapevolezza del presente. E chissà che, rifondandosi, non diano una spinta positiva anche al resto.

Non la cultura, ma la cultura che diventa educazione è la spinta decisiva del progresso.

Un’ultima precisazione forse superflua, ma che sento di dover fare.

I pensieri appena abbozzati non sono di sinistra e non sono certamente di destra. Categorie anch’esse superate. Moderne non postmoderne.

Purtroppo neanche Marx e Gramsci possono dare una mano. Naufragati con il capitalismo che non hanno voluto o saputo superare, ma soltanto espropriare per metterlo in altre mani. Abbiamo visto com’è andata e come ancora va in Corea del Nord e a Cuba.

Marx era ben preparato, intellettualmente onesto, ma era dentro il paradigma smithiano e, peggio ancora, hegeliano. Rovesciò quei

modelli; non li superò. Due clessidre rovesciate.

Marx fu un grande sociologo, un mediocre economista, un disastroso politico. E siamo ancora qui a raccogliere i cocci.

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